Categorie: Editorial
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Lavare, igienizzare, pulire: difficile trovare delle accezioni negative su qualcosa che mira a togliere la negatività stessa. Questione di contesti cangianti, che riescono a trasformare un’azione apparentemente positiva, buona, in un sotterfugio volto a plasmare la realtà mediatica in favore di un vantaggio economico. Questione di washing: dal bianco della sua originaria etimologia inglese alla diverse sfumature che ha assunto nel corso degli ultimi quarant’anni, diventando uno dei più seri problemi comunicativi dell’era digitale. 

Da “l’arte di lavare” – cit. Cambridge dictionary – al tentativo di fermare le persone nella ricerca della verità dei fatti. Il whitewashing passa dalla proverbiale “mano di bianco” su un muro per nascondere le sue imperfezioni al deviare la percezione pubblica sfruttando la morale. Il quotidiano termine inglese venne sfruttato già nel 1986 dall’ambientalista Jay Westerveld, pioniere linguistico, per coniare il ben più noto greenwashing. Westerveld scovò un hotel che incoraggiava i clienti a riutilizzare gli asciugamani per proteggere l’ambiente; in realtà l’obiettivo era di ridurre i costi e aumentare i profitti. 

Da questo basilare concetto di “riciclaggio” mediatico, il lavaggio della propria coscienza si è espanso: da un lato il profitto, dall’altra i movimenti culturali, e nel mezzo le tensioni per spostare il pubblico da una parte all’altra del filo. Ogni scusa è buona per fare washing: sottolineare per esempio quanto un cibo possa essere salutare, nascondendo le sue contraindicazioni, è diventata un’operazione di healthwashing – che non esclude poi tutte le aree di benessere fisico e di presunte regole fittizie per promuoverlo.

La società e la cultura, nell’epoca della digitalizzazione, hanno poi fatto esplodere consapevolezze e dinamiche diverse. L’attualità, per esempio, porta al pinkwashing, ovvero alla dinamica che riveste di rosa e di femminismo senza realmente interessarsi alle donne, ma piuttosto al profitto. La prima denuncia in questo senso fu della Breast Cancer Association (USA), per identificare aziende coinvolte nella lotta al cancro del seno con prodotti e/o azioni dannose. Sulla stessa linea si muove il rainbow washing, quando l’inganno è veicolato da istanze a favore LGBTQ+. E se negli ultimi tempi vi è capitato di prestare l’orecchio alla cultura woke, a un presunto “risveglio delle coscienze”, sappiate che esiste anche il woke washing: un macro insieme che sfrutta qualsiasi tema moralmente sensibile per il marketing aziendale.

Come già detto, l’operazione di washing sposta il giudizio sociale per una apparente “salvezza della propria coscienza”, quando in realtà si vuole solo mascherare la verità. Nel mondo dell’arte il confine e le considerazioni si fanno più labili: potremmo assimilare l’art-washing al mecenatismo – forse la più antica forma di “lavaggio reputazionale”, oppure rimanere a fissare il problema chiedendoci “quanto è lecito che un’azienda sfrutti l’arte per salvificare il proprio operato?”. 

Ciò non toglie che spesso aziende particolarmente lontane dal mondo artistico tentino di farlo proprio per mascherare azioni meschine. Oltre a questa distinzione dettata dalle manovre economiche, il mondo dell’arte e soprattutto del cinema è stato spesso scosso da tematiche di blackwashing e whitewashing, non tanto nella centralità dei profitti quanto nella manovre culturali per legittimare o meno la presenza di attori neri o bianchi in pellicole hollywoodiane, laddove questo fosse ritenuto superfluo, non attinente alla realtà, o addirittura forzato.

Tutto (o quasi) passa per il concetto di reputazione – personale, sociale o aziendale – e di come questa viene trasmessa dai media, soprattutto social, dove la gente ha libertà di parola e di schieramento. Social washing è un altro termine-scatolone che va a raggruppare qualsiasi operazione di narrazione mediatica fittizia, perlopiù digitale. Più specifico invece il brand washing, quando il tentativo è volto al riposizionamento di facciata di una azienda, di un’etichetta o di un brand (appunto), che si può tramutare in un ulteriore dividend washing, nel momento in cui va a mascherare i profitti stessi.

L’elenco di “riciclaggi mediatici” potrebbe continuare menzionando il blue washing – quando riguarda l’acqua, i mari e gli oceani – o di peace washing, se come Tony Stark si propugna la pace vendendo la guerra. Sapere dell’esistenza di questa pratica aiuta a saper riconoscere, valutare e scegliere di credere in un particolare volto aziendale o meno. Teniamo però presente questo: è una questione di finalità. Il washing dimostra come i valori morali non si possano ridurre all’economia, e conseguentemente quanto l’economia possa essere rovinata una volta scoperto l’inganno dall’etica giusta. Una parziale consolazione e un indicatore importante di dove debbano stare le nostre coscienze; talvolta, sono proprio le sfumature a fare la differenza.

 

di Damiano Martin