Categorie: Editorial
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– Come si fa ad avere profonde radici ancorate al terreno,
e al tempo stesso le ali per volare? –

Riprendo lo zaino da settanta litri – per l’ennesima volta – e ci infilo qualche maglietta, un paio di pantaloni, la giacca a vento, il sacco a pelo, giusto un paio di agende e una penna. Mi chiudo dietro la porta di casa: stavolta pesano un po’ di più, la porta e il diaframma; partire e non sapere cosa succederà nei prossimi giorni e fino a, di nuovo, un altro ritorno. Esco, faccio due passi e sono alla stazione di Padova. Il cabinato eroga il biglietto del treno che mi porterà via, a due ore da casa eppure in mezzo all’Europa.

Destinazione Feltre, nel bellunese, per poi salire un po’ di più sul Monte Grappa. Circondato dal Bosco degli Eroi, uno dei teatri della Grande Guerra, sta il centro didattico Valpore: una piccola casa di pietre e legno, trenta posti, una famiglia di custodi, distante dal mondo normale abbastanza per una tregua sociale e digitale. Sto per partecipare al mio quarto Erasmus+ Training Course: otto giorni di attività e workshop, di convivenza anglofona tra sconosciuti. Niente connessioni digitali, solo contatti naturali tra persone, foreste e terreno. E pure con il meteo, poco clemente anche a mille metri sul livello del mare.

Il nome del training è Rooted Wings: uno dei tanti finanziati dalle borse Erasmus+ rilasciate dalla Comunità europea, insieme agli Youth exchange. Permettono a studenti e giovani lavoratori di viaggiare in Europa , dall’una alle tre settimane, per partecipare a giornate di formazione e socializzazione, tanto individuale quanto comunitaria. Ogni progetto prevede un rimborso spese per il viaggio – a seconda del luogo e da dove si parte – rendendola un’esperienza quasi a costo zero; solitamente si richiede ai partecipanti una quota contributiva (varia a discrezione, dai 60 ai 120 euro).

Questa volta siamo giovani italiani, greci, spagnoli, sloveni, polacchi, lettoni, cechi. Perlopiù persone coinvolte in ONG europee, ventenni in viaggio per il continente, un’ex giornalista per l’European Youth Press, maestre dei più inconsueti luoghi: dalle Canarie ai boschi della Grecia. Arrivo alle 18, più o meno, in una delle auto che fa spola tra la stazione e Valpore. In attesa degli altri partecipanti, iniziano le prime strette di mano – alcune decise, altre più timide – e i primi racconti. Aiuto il giovane Petr, ceco, a tirar su la tenda per la notte: studia ingegneria meccanica in Danimarca, e scoprirò nelle mattine successive che si sveglia alle… sei, sette di mattina per andare a correre, in montagna, in salita. Dalla piccola finestra sopra la porta d’entrata sbuca il viso di Ajka, e la designo come compagna di scherzi per i giorni a venire.

Chi organizza questi Training Course sono associazioni e organizzazioni non governative, le quali applicano al bando con i loro programmi di formazione: una volta accettati, inizia la selezione dei partecipanti, la comunicazione, la burocrazia, fino a giungere ai giorni e ai luoghi del progetto: zone più o meno isolate del mondo, dove prendere una pausa e concentrarsi sull’esperienza. Le tematiche dei Training Course sono delle più disparate. Rooted Wings, organizzato dall’associazione padovana Marga Pura, riguarda la cura emotiva di sé e degli altri, l’introspezione del proprio conscio grazie a quattro diverse pratiche, proposte dai trainers presenti: contact improvisation, tango argentino, Daoismo e mindfulness.

Per una sera mi sembra di essere – di nuovo – nel posto sbagliato al momento sbagliato. Di sicuro la mente è piena, di pensieri e di giudizi, e non nel senso benefico del termine. Mi preparo a dormire in tenda: terza volta in vita, la prima da solo, testa e piedi a toccare le due estremità. Mi stendo in diagonale, ascolto i suoni, la natura, le zip dei vicini apri-e-chiudi, l’arrivo del temporale. Dopo un’ora, sembra una discoteca: lampi a ogni secondo, un’incessante e violento rumore bianco, la tenda si muove a ritmo del vento. Mi rannicchio e rimango lì, qualche goccia sulla fronte, ad aspettare. La natura si placa e intorno alle 2; dormo.

E poi si comincia: sveglia alle 8, colazione vegana – così come saranno i pranzi e le cene preparati da Seva, cuoco brasiliano vivente in un ashram vicino a Lisbona – pulizia degli spazi comuni, attività: di movimento, di riflessione, di esplorazione. Tre ore la mattina, due al pomeriggio, sotto il sole cocente di questo cambiamento climatico o all’ombra del Bosco degli Eroi, là dove una volta si sparavano italiani e austriaci e adesso altri giovani si trovano e stanno insieme, parlano la stessa lingua fatta di progetti, aspirazione e debolezze, condividono esperienze.

I diversi suggerimenti dati dai trainers, piccole briciole di discipline più ampie e articolate, servono soprattutto a cambiare prospettive. Danzare nella contact improvisation significa scoprire nuovi movimenti del corpo, la libertà rispetto al solito cammina-siediti-stenditi; farlo insieme vuol dire avere cura di sé e dell’altro, all’unisono, seguendo e supportando il gesto di entrambi. Così come nel tango argentino, dove petto contro petto, appoggiati, si cerca un equilibrio di coppia e di pesi che oscillano avanti, indietro, di lato, a passo di milonga.

“Smettere di pensare con la testa e pensare con il corpo”: mi sembra una buona definizione per definire un movimento conscio. Con-centrazione e senza-centrazione, due modi diversi di lasciare spazio e tempo fluire in uno stato meditativo. A volte serve chiudere gli occhi, respirare di pancia, lasciare la riflessione per attivare la ragione, dare poi un senso profondo a ogni gesto, ogni piccola ritualità; a volte serve aprirli, attivare la vista su tutto, focalizzarsi su niente per vedere, sentire e inalare il tutto che ci circonda.

Nel mezzo, le chiacchiere e le condivisioni, programmate o meno. Porto tutto allo scherzo: Laura, per esempio, studia la pedagogia dei comportamente umani in Lettonia. La guardopreoccupato, le chiedo conferma di ogni gesto, metto in guardia gli altri. Ho parlato spesso con Dafni, siamo quasi coetanei; come stiamo, cosa vorremmo fare. Suonando l’ukulele ho scoperto l’incantevole voce di Dora: ne escono duetti e improvvisazioni, Riptide di Vance Joy diventa una mia personale colonna sonora di questi giorni. Facciamo un paio di falò, rimaniamo fuori fino a tardi a guardare le stelle, a fare Eurovision improbabili, a spegnere il fuoco con una secchiata d’acqua.

Qualcuno mi chiede di parlare in privato, e ne rimango stupito: non penso di avere niente da dire, niente di interessante quantomeno, però ascolto e ci provo. A volte sono io che chiedo di dialogare, vivo il presente, ma capita che passato e futuro mi vengano a trovare, mi angoscioe cerco conforto. Mi chiedo quando è stata l’ultima volta in cui mi sono permesso di essere fragile, di potermi affidare alle cure di un’altra persona. Spesso ridiamo, talvolta si piange: si scoprono traumi, si realizza qualcosa che non è andato, che non funziona, si dà libero sfogo a una vita di preoccupazioni per poter andare avanti.

Verso la fine di questi otto giorni ognuno è libero di proporre una propria attività, da condividere con gli altri; una sorta di piccolo banco di prova. Lavoro sulla respirazione, una Vera – nome polacco – danza colorata con l’aiuto dell’immaginazione, il movimento come degli animali, l’insospettata capacità di disegno tirando delle semplici linee grazie a Piotr, mentre Miruna riporta l’intera esperienza a una riflessione finale, ognuno con la sua “illuminazione”, il suo significato di tutto un percorso.

E anche io, cosa mi porto a casa dopo questi giorni?
In una delle ultime attività siamo stati invitati a creare il nostro mandala scegliendo tre oggetti in natura che rappresentassero ciò che rimane del training, quello che ci lasciamo alle spalle e come vorremmo il nostro futuro. Ho scelto una pietra, a cui sopra ho appoggiato un pezzo di carbone, e sopra un fungo: la pazienza e la stabilità a sorreggere sia il passato che rimane, sia ciò a cui aspiriamo, ciò che piace, come un fungo trovato nel bosco.

Si arriva ai saluti, in una mattina dove a gruppi di quattro lasciamo Valpore, Rooted Wings, i trainers. Sembra una bolla di sapone che si lascia andare, a poco a poco, senza esplodere ma andando avanti, sgonfiandosi nel vento. Un abbraccio ciascuno, scende qualche lacrima, e ritorniamo a Feltre, dove la connessione riprende il suo corso così come la vita di ognuno. C’è sempre quella speranza lontana di rivedersi, un giorno, in un altro progetto, in un altro viaggio. Mi porto dietro il polacco Piotr e il brasiliano Seva: si fermeranno a Padova qualche ora. Mi chiedo cosa succederà poi, quando aprirò la porta di casa e tornerò alla vita normale, ma intanto va bene così. Sono paziente, sono saldo, sono vivo. A volte bastano piccole cose: una montagna, qualche persona di buon cuore, una tenda e un falò. Mi dico alla prossima: tra un bel po’ di tempo, ma sicuramente alla prossima.

 

Foto gentilmente concesse dadi © Ajka Stindl
www.ajkastindl.com

Di Damiano Martin

Una laurea in Lettere moderne allUniversità degli Studi di Padova, e oggi di nuovo iscritto al corso di Filosofia, tra triennale e magistrale; nel mezzo, cinque anni di esperienza allUfficio Relazioni Pubbliche dello stesso ateneo, tra articoli per la webzine Il Vivipadova e redazione nella web radio universitaria RadioBue.it. Nel tempo presente, collaboratore per i magazine Metropolitano.it e Millionaire.it, talvolta viaggiatore sconclusionato fino alla Nuova Zelanda e ritorno – alla ricerca di storie da raccontare e parole da incastrare, che sia in prosa o in versi.