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“Hummus” sembra una brutta parola nell’accezione romanza. Rimanda all’umido, al letame, al concime. Declinata al latino, “humus” – con una “m” – significa “terra”, e da qui viaggia a tutte le sue considerazioni agricole. Lo hummus, però – perdonate la non-concordanza articolo-numero-traduzione – in arabo significa “ceci”, e indica nel mondo la tipica salsa di ceci e tahina, alias olio di sesamo. Salsa che avevo denominato “salsa sabbia” nel mio viaggio in Palestina, quasi undici anni fa, e che dopo un pranzo a Betlemme e svariati tentativi negli anni ho imparato ad apprezzare (parecchio). Una salsa comunque lontano dalle tradizioni occidentali, emblema a suo modo del Vicino Oriente e delle sua cultura. Una salsa povera.
Vi chiederete cosa avrà a che fare tutto ciò con “Ridurre l’ineuguaglianza”.

“Sostenere la crescita del reddito del 40% della popolazione nello strato sociale più basso ad un tasso superiore rispetto alla media nazionale”; “Ridurre a meno del 3% i costi di transazione delle rimesse dei migranti”; “Incoraggiare l’aiuto pubblico allo sviluppo e ai flussi finanziari”. In un mondo a misura di numeri, statistici ed economici, diamo spesso per scontata la definizione delle parole. I numeri focalizzano, individuano; le parole definiscono, tracciano limiti entro le quali agiscono, includono o escludono. Le statistiche sopra riportate sono gli intenti del decimo obiettivo dell’Agenda2030 dell’ONU: “Ridurre l’ineguaglianza all’interno di e fra le Nazioni”. 

L’ineguaglianza negli stati e tra gli di loro si è esacerbata tra il 1990 e il 2010 nei paesi in via di sviluppo (che non significa, per esclusione, “paesi poveri”). Segno che il progresso, all’alba del terzo millennio, non è ancora per tutti. La disparità di reddito è aumentata del 11%. Il 75% delle famiglie vive in distribuzione economica meno omogenea. Ciò implica minor benessere nos solo monetario, ma anche sociale e ambientale. E quindi, disagi, migrazioni, minor peso politico, crisi umanitarie. Le persone ineguali si muovono verso un idea di “uguale”, che possa migliorare le loro condizioni di vita. Ma cosa significa “ridurre l’ineguaglianza”? Cos’è uguale, al giorno d’oggi, e cos’è ineguale?

Uguale è ciò “che nella natura, o nell’aspetto, non differisce, non si discosta sostanzialmente da un altro oggetto, elemento, individuo” recita il vocabolario Treccani. Una definizione che richiama a due aspetti fondamentali: la sostanza delle cose, che tra due oggetti diversi deve, o dovrebbe essere, la stessa, seppur separata; e poi la natura, loro e di tutto ciò che ha natura simile. Natura nel senso di qualcosa fatto non dall’uomo, se consideriamo “uomo” come limite tra un mondo naturale e un mondo artificiale. L’essere in grado di trasformare la materia in materiale.

È propria dell’uomo la concezione di uguaglianza nella sua natura di “similarità”. Ma quanto tempo ha impiegato la morale per estendere l’uguaglianza – la “condizione di cose o persone che siano tra loro identiche, o abbiano le stesse qualità, gli stessi attributi in ordine a determinate relazioni” – al solo concetto, alla teoria che la vorrebbe propria di ogni uomo. Ciò non ha implicato, oggigiorno, una “uguaglianza sostanziale” tra gli uomini. Ognuno dovrebbe avere le stesse qualità, almeno in potenza, gli stessi attributi da poter esprimere o meno in determinate relazioni – sociali – che sono proprie dell’umanità a qualsiasi latitudine, in qualunque condizione economica e sociale. E ciononostante, ho deliberatamente usato il termine “uomo”, che esclude il termine “donna”, anziché quella di “essere umano”. Sottigliezze ineguali proprie, almeno, di questo periodo storico.

Si vorrebbe essere uguali, e dis-eguali nelle uguaglianze. I paesi poveri e in via di sviluppo cercano di essere uguali a noi occidentali, nella loro ineguaglianza. Noi occidentali, tra di noi, vorremmo essere uguali a noi stessi, e diseguali tra noi in una spasmodica ricerca del diverso, dell’originale, dell’inconsueto. Diversi condizioni dettate esternamente dai contesti economici – vorremmo essere sempre “un po’ più uguali” a chi possiede di più – e da quelle esistenziali – distinguerci ma farci allo stesso tempo riconoscere dagli altri. La cultura e le tradizioni vogliono mantenersi uguali a loro stesse, mentre il mondo, e i giovani, muovono verso una separazione, una diversità dis-eguale, ma non ineguale. Frammenti di un mondo complesso, non omogeneo – non come almeno lo si vorrebbe pensare – e al tempo stesso uguale per alcuni, diseguale per altri, ineguale per molti.

Da qui, quindi, il goal n.°10 dell’Agenda 2030: “Ridurre l’ineguaglianza”, ovvero ridurre quelle condizioni di possibilità che consentono a ogni singola donna, e uomo, di essere potenzialmente uguali e attivamente diseguali, in questa danza di opposti dove nel mezzo, ancora, tra naturale e artificiale, tra desiderio e realtà, giace l’essere umano. Se l’uguale cerca il diseguale per distinguersi, l’ineguale cerca l’uguaglianza per sentirsi come “coloro che stanno bene”; un pensiero di bene che non trova giustizia, qualora questa dovrebbe riequilibrare la distribuzione di risorse e possibilità tra chi ha troppo e chi ha niente. E chi ha tanto, appunto, ed è “più uguale degli altri”, dovrebbe cercare non una ineguaglianza, ma una disuguaglianza, per continuare a generare movimenti di scambio, di innovazione, di permeazione culturale.

In un mondo finito, con risorse finite, non possiamo semplicemente pensare di aiutare i più poveri a raggiungere livelli di benessere in via di sviluppo; non possiamo nemmeno accettare, senza almeno discutere, che lo stile di vita occidentale sia il migliore possibile, quello a cui traghettare la parte ineguale del mondo. Forse, forse, ostentare diseguaglianze infinite potrebbe risolversi nel cercare l’ineguale, il povero, la mancanza misurata, per assaporare meglio la fortuna nella quale siamo ricaduti nei mondi atlantici, tra America e Europa.

Oggi ho fatto per la prima volta l’hummus in casa. E mentre pensavo al concetto di “uguale”, mi chiedevo cosa fosse quest’atto di coprire uguaglianze diverse, questa ricerca di dis-uguaglianza per fare qualcosa di non-uguale, a me un po’ più uguale. Ridurre l’ineguaglianza non dovrebbe ridursi quindi a un mero parametro statistico-economico, né tantomeno omologare il pianeta alla stessa economia, alla stessa idea, allo stesso stile di vita. È un tentativo di ricerca. Ridurre ciò che è ineguale, per permettere a tutti di cercare il dis-uguale: ciò che mantiene la diversità nell’uguaglianza dell’essere umani.

È il concime che ravviva le nostre vite occidentali.
L’hum(m)us, si intende, e tutto ciò che questo posso coltivare.

 

di Damiano Martin