Categorie: Editorial
Tipo di Contenuto:
Tempo di lettura: 4 minuti

Innovazione è una delle parole più abusate degli ultimi anni, per questo, sempre più spesso, ci chiediamo cosa sia veramente innovativo in un mercato a cui sembra non mancare nulla. 

Un articolo pubblicato agli inizi degli anni 90 sulla rivista Journal of Business Venturing  riporta che oltre il 50% di nuove aziende fallisce nei suoi primi 5 anni di vita. Le statistiche di Eurostat indicano che la percentuale media di imprese dell’Unione Europea sopravvissute dopo 3 anni si attesta al 56,2. Dati più recenti riportano che il 75% delle startup farà pivot della propria idea di impresa dopo i primi tre di anni di avvio (ovvero cambierà mercato, il prodotto o il modello di business) e che il tasso di fallimento medio delle startup a livello mondiale si attesta attorno al 90%.

Dati tutt’altro che rassicuranti e che ci suggeriscono che non tutte le innovazioni sono destinate ad essere dirompenti o di successo come spesso vorrebbero credere giovani (e meno giovani) startupper. Se a questo scenario aggiungiamo concetti di accelerazione tecnologica, digitale e culturale, la fascinazione che basti un computer ed un garage per fare innovazione svanisce piuttosto velocemente.  

Ecco, quindi che nella mia quotidianità fatta di incontri con “wannabe startupper”, imprenditori tradizionali ed investitori esigenti mi sono più volte interrogata su cosa significhi apporre l’aggettivo “innovativo” ad un business, soprattutto, a quelli emergenti. 

Ho provato a ragionare sulle startup presenti e passate che popolano il nostro ecosistema e ho sintetizzato in tre punti, interconnessi, il triangolo dell’innovazione: 

  • Innovazione è “semplificazione”
  • Innovazione è “risolvere un bisogno reale” 
  • Innovazione è “cambiare le domande”

 

“Cerco qualcosa che mi semplifichi la vita”, quante volte lo abbiamo pensato o persino esclamato ad alta voce. Le migliori innovazioni hanno il potere della semplificazione. Un’affermazione forte che può suonare contro intuitiva soprattutto se rapportata all’immagine che normalmente si usa per descrivere la creazione di un prodotto, in cui il risultato è solo la punta dell’iceberg, ma la progettazione, gli investimenti, la creatività, la fatica, le ripartenze sono tutte nelle acque sommerse. 

Ciò che però spesso non si conta nel percorso di innovazione è la capacità di depotenziare un’idea e di renderla effettivamente Easy to understand, easy to implement, easy to communicate per il mercato di destinazione (semplice da capire, semplice da implementare e semplice da comunicare). Con il termine semplice non alludo a qualcosa di banale o superficiale, ma ad un risultato che permetta una semplificazione dei processi, dei meccanismi di funzionamento, di marketing e perché no anche della vita in generale. 

 

 

Crediamo molto in questo mantra che trasmettiamo con forza alle nostre startup che mosse da coraggio, iniziativa e passione spesso progettano idee di impresa molto articolate, che allungano notevolmente il time to market (il tempo di arrivo al mercato), aumentano le complessità tecniche, ma allo stesso tempo rischiano di non essere comprese o apprezzate fino in fondo dai potenziali clienti o investitori. 

Questo ci permette di scendere al secondo vertice del triangolo: innovazione è “risolvere un bisogno reale”. Prima di iniziare un’avventura imprenditoriale che per sua natura dovrebbe essere innovativa, come quella di una startup, diventa fondamentale analizzare il proprio mercato ed empatizzare con il potenziale cliente. Questo può sembrare un passaggio banale, ma è un comportamento sottovalutato anche da molte aziende consolidate, che spesso si preoccupano di interpellare la propria community solo in fase di test prototipale, senza rendersi conto che i bisogni di quella specifica nicchia di clienti sono ben distanti dal prodotto o servizio sviluppato. Risulta quindi necessario cambiare il punto di partenza ascoltando i bisogni dei futuri clienti, adottando una prospettiva customer driven fin da subito e non privilegiare, come spesso accade, una prospettiva company driven, correndo il rischio di creare prodotti senza mercati di sbocco. 

Siamo quindi giunti al terzo vertice del triangolo: innovazione è “cambiare le domande”.

La borraccia d’acqua, il monopattino elettrico, il cibo a domicilio si possono considerare “innovativi”?! Senza dubbio la capacità di interpretare prodotti consolidati in chiave moderna cavalcando i trend e sfruttando le tecnologie, che oggi il mondo mette a disposizione, è un must delle imprese innovative. Ciò che però fa davvero la differenza è la capacità di porsi domande che mettano in discussione lo status quo e che permettano di vedere il mercato da punti di vista alternativi per scovare nuove nicchie. Questo concetto apre e permette di accettare diversi tipi di innovazione, ad esempio, quella di servizio, di linguaggio, di comunicazione e di marketing. 

In conclusione, quindi nella mia personale visione l’innovazione non è un evento singolo o accidentale, ma è un processo che “risolve un bisogno reale”, che parte con “cambiare le domande” e che “semplifica la vita delle persone”.

 

                                                                                                             

             Giulia Turra
Executive manager Start Cube
(incubatore di Galileo Visionary District)