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Nel momento in cui chiamo Alice, lei si trova a Pontremoli, Lunigiana, in alta Toscana. Qui mi dice che sta cercando casa, per partecipare a un progetto dal nome “Start Working”. L’obiettivo è ripopolare il paese, con un gruppo di professionisti che lavorano da remoto, mantenendo però salde le tradizioni e i valori del luogo.

Alice Pomiato è una green content creator, formatrice e consulente in sostenibilità.
Su Linkedin è tra le voci più influenti su questo tema, figura infatti tra le Top Voices Ambiente del 2022. Il suo profilo Instagram si chiama aliceful ed ha un seguito di più di 66000 followers. Incuriosito dalla sua visibilità e da questi numeri ho deciso di contattarla per un’intervista e conoscerla meglio.

Alice, ci racconti la tua storia prima di “aliceful”?

Nasco nel “profondo Veneto” e studio Comunicazione e Marketing all’Università di Padova. Dopo la laurea, svolgo diversi lavori, per hotel di lusso e agenzie di comunicazione. Da subito, per una sorta di imprinting familiare, mi interesso a tutti i temi della sostenibilità ambientale, sociale e ciò che riguarda il terzo settore. Mi ha sempre affascinato occuparmi di questa area perché mi dà una prospettiva interessante rispetto a come vedere il mondo.

Una volta diventata digital strategist e dopo aver gestito i social per aziende terze, nella mia testa scatta qualcosa che mi rende più consapevole di quello che sta succedendo attorno a me. Questo lo devo anche al contributo di Greta Thunberg. Mi rendo conto che ogni mattina vado a lavorare e l’essenza del mio lavoro è proprio fare strategie di comunicazione per aiutare aziende che spesso e volentieri vendono cose inutili. La vedo come una grande contraddizione perché va oltre i miei valori e quindi a un certo punto, esausta, decido di mollare tutto e partire per l’estero.  Così viaggio per tre anni in Australia, Nuova Zelanda e Asia, dove faccio varie esperienze di vita. Conosco persone, continuando a fare lavori principalmente manuali o a contatto con il pubblico.

Nel 2020 ho il sogno di trasferirmi in Nuova Zelanda per iniziare una nuova vita ma arriva il Covid. Decido quindi a Novembre di aprire un canale social chiamato “aliceful”. In quel periodo in Italia c’erano pochi profili che parlavano di stili di vita sostenibili, mentre in Australia, Nuova Zelanda c’erano moltissimi influencer, quindi ho preso spunto da loro.
I social sono uno strumento che mi è sempre piaciuto.
L’avventura fondamentalmente è iniziata così, sin da subito ha cominciato a darmi soddisfazioni in quanto vedevo persone molto interessate.
La mia concentrazione per la comunicazione è andata di pari passo con lo studio. Non ho mai studiato con così piacere in vita mia. Ora lavoro come Content Creator, realizzo consulenze e faccio formazione per le aziende.

Come hai maturato la decisione di partire?

Ero sull’orlo del burnout, perché quando fai qualcosa che non ti piace, questa pesa sulla salute fisica e mentale. Quando sono partita mi sono detta che in Australia non volevo vedere un computer per due anni. Quindi lì ho fatto l’insegnante di italiano, la hostess, la cameriera e la contadina. Queste attività mi hanno dato grande serenità e mi hanno dato anche tanto tempo per studiare. Una cosa che per me è stata fondamentale, in questo cammino, è stata che mentre io viaggiavo, incontravo altri viaggiatori con cui condividevo pasti e racconti. Erano praticamente tutti vegetariani e vegani. Al tempo, questa cosa, mi colpì molto. Mi sono dunque chiesta se loro avessero intuito qualcosa che a me mancava ancora. Da allora ho approfondito l’argomento. Quando ho aperto il canale ero ancora onnivora, mangiavo tutto quanto. Poi ho iniziato un percorso, ho preso consapevolezza e ad oggi sono tre anni che sono vegana convintissima.

Come è diventata una professione?

Un anno e mezzo fa, ho cominciato a ricevere proposte per spiegare le tematiche delle mie ricerche. Mi è stato chiesto di realizzare dei workshop su questi argomenti e dunque quello che faccio adesso è aiutare le persone che lavorano dentro le aziende a capire che cos’è la sostenibilità in modo da portarla ovunque. Tutte le aziende vogliono essere più sostenibili, ma le persone che ci lavorano dentro non sanno cos’è la sostenibilità in tutta la sua complessità. Questo è dovuto purtroppo dal fatto che a scuola non ce lo insegnano.

Qual è, secondo te, l’azione più sostenibile che possiamo intraprendere?

Fare parte attiva dei propri contesti di riferimento, che siano aziendali o familiari. Può essere un’associazione, un ente, un comitato collettivo, un partito, che sia una comunità, una città, un territorio. Questa è la cosa più sostenibile che si può fare insieme alla gente e prendere decisioni insieme per fare pressione su chi può cambiare le cose. Al tempo stesso si può mangiare meno carne, scegliere il fornitore di energia elettrica, muoversi più con i trasporti pubblici. Però queste cose secondo me sono secondarie, il cambiamento parte dalla comunità. Un fattore che rilevo nella mia community è che molte persone mi dicono che si sentono estremamente sole in queste scelte. Ad esempio, ci sono persone che decidono di diventare vegetariane. Ma mi dicono che vengono prese in giro dai familiari, dagli amici, dicono “io non ho nessuno con cui parlare di questi argomenti”. A livello di sostenibilità sociale, ambientale c’è tantissimo volontariato e partiti, comitati che si occupano di queste cose. Allora bisogna cercare di farne parte, istruirsi e portare la propria conoscenza all’interno. Il potere sta proprio nei numeri. Più gente fa parte di queste associazioni e più c’è possibilità di cambiarle. C’è bisogno di ricostruire questa sorta di coscienza collettiva che è comunitaria, collettiva.

Hai delle associazioni in particolare che raccomandi?

Le realtà sono tante, se dovessi dare un’indicazione a una persona che vuole aderire partirei iniziando proprio dal territorio. Consiglierei di fare una ricerca on line o nel proprio comune o sui social e capire cosa c’è di attivo intorno, perché si scoprirebbero dei mondi incredibili. Ovviamente si va dalle più ampie che conosciamo tutti, che sono le delegazioni territoriali di Legambiente e di Greenpeace. Io stessa faccio la formazione senior di Legambiente su tante tematiche quali femminismo, antifascismo, veganismo. Ce ne sono altre meno note come ad Asolo dove è appena nata un’associazione animalista che si occupa dei diritti degli animali, che collabora con Enpa Nazionale Protezione animali. Questa collabora a sua volta con il Cras di Treviso, peraltro una delle realtà a mio avviso che hanno bisogno di visibilità. E’ l’unico ente in Veneto che si occupa di salvare animali selvatici in difficoltà. Se viene ad esempio investito un capriolo c’è il Cras. E’ un’iniziativa popolare non istituzionale nata da persone che sentono il dovere di fare del bene verso gli animali e che stanno male se non lo fanno. Poi se vogliamo parlare di associazionismo dei giovani, ad esempio, io da piccola ho fatto gli scout e secondo me quella esperienza mi ha spronato tantissimo perché mi ricordo il contatto con la natura, le uscite, imparare l’alfabeto morse, il fuoco, le sopraelevate, i nodi. Quegli insegnamenti lì sono preziosi. Adesso ci sono, pensate i camp di digital detox per i bambini, cioè i genitori pagano per mandare i bambini a settimana senza playstation e telefoni ad abbracciare gli alberi.

Quali sono le esperienze formative più importanti che hai fatto?

Devo dire che prima non ho mai avuto così tanta voglia di studiare come adesso. Io sono sempre stata un po’ un “sei e mezzo” , una che arriva sopra la sufficienza e si salva. E invece ho riscoperto proprio la passione per tutti quei siti, queste tematiche e il fatto di poterle divulgare. Ovviamente ho sentito anche la pressione di dire a me stessa che non avevo studiato scienze ambientali, per cui l’attenzione di dire “tu non hai un pezzo di carta”, le competenze per parlare di questi argomenti. Quindi per questo, nel 2022, mi sono iscritta al Master futuro vegetale di Stefano Mancuso, all’Università di Firenze. Un master interdisciplinare, che parla di innovazione sociale, ambientale con un approccio multidisciplinare. Ho fatto inoltre un master di Talent Garden in Management in cui si è parlato di proporre business model alternativi a grandi multinazionali. Ora sto facendo un master executive in sviluppo e organizzazione delle imprese socialmente innovative. Questo perchè credo che le realtà produttive possono realmente creare un cambiamento. Per le mie politiche credo che finché non cambiamo il paradigma della crescita infinita non andremo tanto lontano.  Noi possiamo continuare a dire di ottimizzare i processi però se poi lo scopo di ogni azienda è quello di continuare a crescere, vendere sempre di più non ne usciamo. Possiamo avere l’energia più pulita che vogliamo. Possiamo ottimizzare i processi e produrre meno CO2, ma continuiamo a usare questa crescita sul modello estrattivo. Questo va proprio contro natura. Va contro i limiti di questo pianeta. Purtroppo è profondamente legata al modello economico, cioè se questo non viene messo in discussione, il resto sarà sempre un po’ un tappabuchi.

Com’è percepisci la questione di genere all’interno del tuo settore?

Abbiamo un disperato bisogno di comunicatori uomini che parlano di sostenibilità. La maggior parte delle persone che stanno sui social a parlare di questa tematica sono donne. L’argomento è molto relegato ai ruoli di genere, a chi sta dietro alla cura della casa che è un discorso che ancora grava molto sulla schiena femminile. Invece avere anche degli uomini che ci mettono la faccia e parlano ad altri uomini di sostenibilità senza che questo argomento sia percepito come solo ed esclusivamente un qualcosa di femminile, sarebbe molto importante.

Hai un consiglio di un libro o un podcast?

Mi è piaciuto tantissimo un film che secondo me è interessante perché parla delle dinamiche di potere all’interno di questa società e quindi automaticamente di sostenibilità. Si intitola Triangle of Sadness. Per il podcast consiglio DOI (Denominazione di Origine Inventata) in particolare la puntata “Vegan e sostenibilità” in cui ho partecipato. Il programma si occupa di smascherare la storia del cibo italiano, spiegando come tutto quello che noi crediamo tradizione italiana sia in realtà una gigantesca operazione di marketing dal dopoguerra in poi. A settembre scorso mi hanno invitata a iniziare la terza stagione. Abbiamo quindi fatto un approfondimento parlando di alimentazione vegetale e le sue ragioni politiche sistemiche in una bella puntata che vi invito ad ascoltare.

 

di Marco Camporese