Categorie: Editorial
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Diverse ricerche svolte dell’Istituto Tagliacarne rilevano che l’attività formativa amplifica gli effetti sulla produttività derivanti dall’adozione di innovazioni tecnologiche e di sostenibilità

Innovazione, imprenditorialità e sviluppo. Un trinomio che dall’inizio del ‘900 è al centro di analisi, dibattiti, discussioni e interventi di policy. Il focus di questo trinomio è nella capacità dell’imprenditore di creare cose nuove, introducendo vere e proprie “rotture” negli ordinari processi di mercato. Ancora oggi, dopo oltre centodieci anni dalla prima apparizione della “Teoria dello Sviluppo Economico” di Joseph Alois Schumpeter, questo nesso appare inscindibile, con l’azione imprenditoriale che consiste nello “spezzare le vecchie tradizioni e nel crearne di nuove … per amore del mutare e dell’osare e delle difficoltà come tali”. Ma l’imprenditore schumpeteriano, per quanto pienamente inserito nei processi di mutamento sociale, è una sorta di “eroe solitario”, che esprime una leadership basata in particolare sul suo desiderio di affermazione e di creazione. Questa concezione elitaria della funzione imprenditoriale è il frutto di una visione sostanzialmente individualistica, che negli anni successivi sarebbe stata portata ben oltre l’originaria formulazione di Schumpeter, dando luogo all’impostazione neoliberista tutta centrata sul trionfo del mercato e il mantra del profitto.

La storia del nostro sistema capitalistico-imprenditoriale a matrice familiare ci offre invece una visione diversa di questa figura e del nesso innovazione-sviluppo. Il nostro è un imprenditore che nasce nei territori ed è profondamente inserito nel sistema sociale che lo genera e con il quale interagisce. Un imprenditore che nel tempo svincola la sua azione dalla sola possibilità di diffondere e industrializzare le tecnologie, ma che da quella possibilità trae alimento per fare innovazione sociale. Un imprenditore che ha in testa un “progetto”, per dirla con le parole di Giacomo Becattini, e i cui obiettivi non sono: “né l’abbondanza delle merci né la dimensione dell’efficienza delle imprese e neppure il passo del progresso scientifico-tecnologico in sé considerato, ma il benessere generale, o meglio la felicità pubblica”.

Così l’innovazione imprenditoriale supera il connotato tecnologico e si trasforma in innovazione sociale, l’imprenditore stempera il suo carattere individualistico, mantiene il suo ruolo di leader, ma nella logica di una impresa aperta e relazionata con le altre, in quanto attiva processi collaborativi all’interno e all’esterno del perimetro aziendale. Ritorna anche qui la funzione sociale non dell’impresa, aspetto che potrebbe prestarsi ad alcune ambiguità, ma dell’imprenditore in quanto motore dell’innovazione.

Una innovazione che per produrre effetti diviene sempre più collaborativa e attenta al complessivo ecosistema di cui l’imprenditore è parte. E allora la funzione imprenditoriale si collega in primo luogo all’innovazione e alla crescita del capitale umano dell’impresa. Se l’innovazione passa per la crescita delle persone che sono nell’impresa, allora un imprenditore non può essere vero innovatore se al contempo non presta attenzione alla crescita qualitativa del personale. E questo non perché così svolge al meglio il suo ruolo di innovatore sociale, ma per una concreta motivazione di convenienza.

Diverse ricerche svolte dell’Istituto Tagliacarne rilevano che l’attività formativa amplifica gli effetti sulla produttività derivanti dall’adozione di innovazioni tecnologiche e di sostenibilità: quando queste due tipologie sono realizzate congiuntamente la produttività aziendale aumenta in media del 14%, quando riguardano anche il capitale umano (formazione up-skilling, re-skilling, manageriale per innovazione modelli di business) il guadagno di produttività sale al 17%. Più in generale la combinazione tra tecnologie 4.0 e formazione migliora l’efficienza produttiva e la qualità dei prodotti, la relazionalità con le altre imprese nella filiera e con i clienti.

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Ma c’è di più, l’innovazione collaborativa (open innovation), realizzata con altri partner esterni all’impresa, inizia ad avere uno spessore sempre maggiore: questa formula è in primo luogo meno concentrata e più diffusa, rispetto alle altre, nelle micro-imprese. Per le imprese minori poi rappresenta anche una vera e propria sorta di push factor rispetto alle aziende di maggiori dimensioni. Inoltre stimola comportamenti aziendali più attenti alla socialità, visto che le imprese che fanno open innovation realizzano investimenti nel welfare aziendale nel 58% dei casi contro il 38% di quelle che non la fanno, sono più attente agli investimenti a favore del territorio e delle comunità nel 38% dei casi contro il 18% delle altre, collaborano con il terzo settore nel 35% delle situazioni contro il 19%, e hanno anche una più diffusa coscienza green nel 57% dei casi contro il 36%. Così attenzione alle risorse umane e più spiccata socialità si saldano in un approccio imprenditoriale che è aperto e cooperativo.

Recentemente questo aspetto è stato sottolineato nelle Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco che, nel richiamare il ruolo sociale dell’azione e la necessità di un approccio collaborativo, ha evidenziato che però serve una capacità “non solo di immaginare le cose, ma di farlo collettivamente”. La funzione d’innovazione sociale dell’imprenditore è perciò il modo di esprimere una concreta “immaginazione collettiva” alla base di un approccio allo sviluppo sempre più attento alle persone come vero fattore di crescita.