Categorie: Editorial
Tipo di Contenuto: ai | creatività | Cristiano borsato | umanesimo
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Oggi abbiamo il piacere di fare due chiacchiere con Cristiano Boscato, Direttore didattico della BBS (Bologna Business School), Vicepresidente di Injenia, laureato in Semiotica con Umberto Eco e inserito da Forbes Italia tra i Top 100 manager italiani.

Ci può spiegare, da antropologo, come mai nell’era dell’Intelligenza Artificiale si sta riscoprendo il valore delle discipline umanistiche e perchè non possiamo parlare di tecnologia senza parlare di persone?

Premetto che non mi definirei un antropologo, ma più che altro un osservatore del mondo con un background umanistico. Detto questo, oggi sta emergendo una rinnovata importanza per le discipline umanistiche e un riconoscimento del valore delle competenze delle persone. Ciò accade per diverse ragioni.

Prima di tutto, l’Intelligenza Artificiale e le tecnologie stanno diventando sempre più presenti e pervasive nella nostra vita quotidiana. Come ogni volta che abbiamo a che fare con l’introduzione massiva nelle nostre vite di tecnologie (relativamente) nuove, assistiamo a un aumento delle preoccupazioni riguardo alle loro implicazioni sociali, etiche e morali: è successo anche per l’auto, la TV, Internet e così via. Le discipline umanistiche, come la filosofia, l’etica, l’antropologia e la semiotica offrono strumenti concettuali e un quadro teorico per affrontare queste questioni. Prendiamo il caso noto di GTP-4 di Open AI che può effettuare ricerche, scrivere codice informatico, generare contenuti, automatizzare parti dei processi aziendali e così via. Occorre però chiedere alla macchina di lavorare per noi in modo appropriato, oltre che fare un attento controllo di ciò che ha generato solo in base alla sua conoscenza del mondo. Senza le persone, Chat GTP è solo un pappagallo che ripete in base alla statistica.

In secondo luogo, l’Intelligenza Artificiale sta aprendo nuove possibilità nel mondo del lavoro e delle competenze richieste. Queste includono la creatività, il pensiero critico, la risoluzione dei problemi complessi, l’empatia e la comunicazione efficace. Le discipline umanistiche – e l’arte – contribuiscono a sviluppare queste competenze. Occorre fare un po’ di reverse engineering: anziché sostituire l’intelligenza umana con quella artificiale, le aziende devono riflettere su come l’IA possa aumentare il potenziale delle persone, liberando il lavoro da task ripetitivi, a scarso valore aggiunto e magari noiosi. Con questo approccio, l’IA può veramente generare un valore enorme.

Infine, un assunto filosofico (appunto): la tecnologia non esiste da sola, in un vuoto sociale. È sempre costruita, implementata e utilizzata da persone. Dobbiamo dunque pensare sempre a far sì che generi valore per noi, non viceversa.

Come dice nel suo ultimo libro” In una notte d’estate ho visto il futuro”, in ogni azienda orientata al business il lato professionale e quello privato sono completamente intrecciati. Dal suo punto di vista come giudica questo dato di fatto?

Oggi è difficile creare una linea di demarcazione tra la sfera professionale e quella privata. Noi come persone siamo sempre alla ricerca dello stare bene. E stare bene non distingue tra ciò che si è e ciò che si fa come lavoro.

Per questo il paradigma sta cambiando: si passa dal fare “un lavoro”, avere un “posto fisso”, a fare “il lavoro”, quello che dà soddisfazione e rende felici. Non è una semplice sfumatura grammaticale, ma un cambio di prospettiva, che vede l’azienda stessa interessata al ben-essere delle persone.

Organizzazione e cultura aziendale creano dunque le condizioni per il benessere. Le persone poi, ogni giorno nella loro collaborazione, ne determinano la riuscita. La tecnologia, insieme alla consapevolezza delle sue possibilità e dei suoi limiti, è un abilitatore per raggiungere questo benessere, aiutando a traghettare l’organizzazione aziendale da un verticalismo ingessato a un ecosistema virtuoso capace di reagire ai cambiamenti, se non di anticiparli.

Per questo il focus della tecnologia è di rendere le interazioni tra persone e i loro processi quanto più naturali possibili. Con Interacta, la piattaforma business che connette e coinvolge tutta la workforce e pone ognuno nelle condizioni di dare il proprio contributo, ci stiamo riuscendo in molte realtà italiane, sia a livello enterprise che nelle PMI.

La comunicazione all’interno dell’azienda svolge per lei un ruolo centrale. Lei dice che “la prima azione da fare per attivare qualsiasi cambiamento è lavorare sulle sinapsi del nostro ecosistema impresa”. Perché la comunicazione occupa una posizione così determinante?

Vedo le aziende come un sistema neurale diffuso. Come è strutturato il nostro cervello, così dovrebbe essere l’organizzazione aziendale. L’organizzazione diventa così pensante, dove i neuroni sono i team di lavoro e le sinapsi le connessioni che permettono la comunicazione tra essi, i punti di snodo della comunicazione da cui partono decisioni e azioni.

In questo sistema intellettivo connesso, i concetti di divisione e unità vengono sostituiti semplicemente dal termine “team” o “gruppo”. L’accento va però posto sulla sinapsi. Rendere la comunicazione naturale, trasparente, immediata, significa creare nuove informazioni e nuovo valore. La tecnologia, in quest’ottica, crea le migliori condizioni per questo punto di snodo comunicativo che è il vero elemento di connessione tra i team.

L’azienda diventa quindi un’organizzazione vivente, pensante, interconnessa al suo interno e al suo esterno, alla costante ricerca di un equilibrio dinamico al fine di costruire il suo futuro.

C’è un altro aspetto che deriva da questa visione delle aziende come sistema neurale. La prima azione da fare per attivare qualsiasi cambiamento è lavorare sulle sinapsi del nostro ecosistema impresa, non sul cervello a livello top down.

Il secondo capitolo del suo libro si apre con una citazione del rapper Marracash “Il destino è cieco, Facchinetti, McGregor.” Come mai ha scelto questa frase per parlare di evoluzione delle imprese?

Trasparenza, comunicazione, meno divisione tra sfera professionale e privata significa anche creare commistioni tra mondi. Tra business e musica. Tra linguaggio business e rap. Il disco Noi, Loro, Gli Altri di Marracash da cui ho preso la citazione dimostra questa necessità di andare oltre le categorie oppositive. Di cercare la bellezza, di cercare il senso delle cose, ovunque si trovi. Per questo l’ho scelto come citazione, forse provocazione, per dare un messaggio importante: le aziende fanno fatica a reagire alle trasformazioni e stanno spesso imprigionate in schemi vecchi. Anche le aziende che hanno ottimi risultati economici devono interrogarsi su questo: il cambiamento oggi è repentino, pervasivo e non lascia scampo se non affrontato per tempo.

 

Un altro elemento che lei ritiene decisivo nel mondo aziendale è la creatività. Come possiamo alimentare la sua produzione, soprattutto nei giovani che si affacciano per la prima volta al mondo del lavoro e come può la creatività costituire un miglioramento della cultura aziendale?

Ci sono diverse azioni per favorire un ambiente aziendale incentrato sulla creatività: fornire spazi per l’espressione creativa, promuovere la diversità e l’inclusione, sostenere il pensiero critico e l’autonomia, fornire una cultura del fallimento costruttivo. Ma spesso non basta.

Occorre infatti creare un ambiente che consenta alle persone di esprimere al meglio le loro potenzialità, di portare il loro contributo personale. Creare un’intelligenza collaborativa, nella quale il contributo di ognuno eleva la capacità di ragionamento e di decisione dell’intera comunità.

Fiducia e formazione sono centrali. La fiducia permette alle persone di mettere in pratica ciò che sono e ciò che sanno. Spesso si dice: “un buon manager oggi non deve lavorare, non deve far altro che mettere gli altri nelle migliori condizioni per farlo”. Me ne rendo conto tutti i giorni: è paradossale il fatto che spesso mettiamo dei limiti all’agire dei nostri collaboratori, non dando loro la possibilità di fare acquisti aziendali da poche centinaia di euro per esempio. Non li lasciamo liberi di provare a fare di testa loro, li influenziamo o li mettiamo in condizione di essere meri esecutori.

Il secondo punto è la parte formativa, ovvero accompagnare le persone in un percorso di crescita personale e professionale attraverso una formazione che permetta loro di capire meglio, apprendere nuove competenze trasversali, perfezionare quelle già a loro disposizione. Per questo, serve una combinazione di formazione formale e informale: la formazione volta ad aumentare le competenze hard e soft specifiche affiancata a un sistema interno che faciliti l’apprendimento continuo dagli altri, giorno dopo giorno.

In conclusione, il nostro web magazine ha una rubrica chiamata “Humane Stories” in cui raccontiamo le migliori startup del territorio presenti presso Le Village by CA Triveneto a Padova. Avendo lavorato per anni con le startup, quale consiglio spassionato darebbe a una persona che decidesse di avviare questo tipo di impresa?

Avendo creato numerose start up di successo posso dire che questo modello va analizzato e portato all’interno delle aziende, come spiego nel capitolo 6 Startup yourself del libro. Oltre alla fiducia e alla formazione di cui abbiamo già parlato, le start up si basano su una ricerca dell’innovazione continua e su un modo di ragionare in continuo movimento.

I giovani che le vivono fanno domande spiazzanti, senza aspettarsi risposte prefabbricate, ma un metodo che li metta nelle condizioni di scoprire da soli qual’è la soluzione. Le start up sono l’ecosistema senziente di cui parlavo poco fa, alla continua ricerca di un equilibrio dinamico. Dove si condividono valori. Dove c’è una cultura diffusa che fa dell’errore non una condanna, ma il punto dal quale ripartire per migliorarsi. E una mentalità imprenditoriale a tutti i livelli, dove ogni team è interconnesso agli altri. Le start up sono comunicazione, interazione, relazioni interne ed esterne.

Lo sono anche le aziende, ma talvolta se lo dimenticano, e per questo occorre prendere spunto dalle start up per ricreare quell’ecosistema in cui ogni team è libero di muoversi in modo autosufficiente e di ragionare per obiettivi, per budget e in base ai dati, aiutati dalla rete di macchine, software e algoritmi a disposizione.

Ne consegue quindi che l’organizzazione del futuro dovrà essere fatta di team che lavorano come start-up, in grado di annientare il male principale per ogni impresa: l’immobilismo che uccide l’innovazione e non le permette di crescere. Fondandosi sui principi cardine delle start up: orientamento al cliente, muovendosi sempre insieme alla tecnologia e all’innovazione.

Marco Camporese
Digital Marketing Specialist