Categorie: Editorial
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Chi non tratta di economia ogni giorno, ma è quantomeno avvezzo a seguirne i movimenti, si sarà via via reso conto del sopravanzare di un acronimo reso sempre più importante dai mercati stessi. Si tratta della sigla “ESG”, ovvero delle parole “Environmental, Social and Governance”. Questi tre termini circoscrivono tre precisi ambiti di azione, dove il verbo sostantivato che li accomuna è “sostenibilità”. Non sono altro che parametri, numeri, misurazioni statistiche con le quali le aziende calcolano i loro impatti a livello ambientale, sociale e dirigenziale, per valutare la loro dimensione sostenibile rispetto ai tre ambiti.

Tutto ruota attorno al concetto di sostenibilità, dunque, a cui le tre aree aspirano. Val la pena dare una definizione precisa del termine; secondo il vocabolario Treccani, “sostenibilità, nelle scienze ambientali ed economiche, indica una condizione di sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generezioni future di realizzare i propri”. Il concetto sarebbe stato introdotto nel 1972 (prima conferenza ONU sull’ambiente), definito con precisione dal rapporto Brundtland del 1987 e diventato paradigma di sviluppo nel 1992 (sempre dopo la conferenza ONU).

Le ESG sono l’espressione tangibile della sostenibilità, i luoghi in cui questa si può misurare e valutare, per perseguire un mondo – economico, e poi globale – più giusto, nei termini di equilibrio tra uomini e ambiente. Ciò che viene implicato dalla definizione è la questione legata alle risorse, enunciata da quel “soddisfacimento dei bisogni”, che permette un calcolo della sostenibilità, ma ne dà allo stesso tempo una restituzione parziale, che sfiora l’idea di uno sviluppo non solo materiale, ma anche etico ed ecologico (inteso, qui, come rispetto della natura, non come sua oggettificazione).

Tra i tre ambiti ESG, secondo la ricerca BlackRock intitolata Sustainability goes mainstream, “continua ad essere prevalente la dimensione ambientale rispetto alla “S” di Sociale e alla “G” di Governance. I 425 investitori coinvolti nella ricerca, attivi in 27 paesi e in rappresentanza di 25 trilioni di dollari, mostrano che la prevalenza verso le tematiche ambientali è destinata a crescere nei prossimi 3-5 anni dall’88 all’89%; la parte Social supera di poco il 50% ed è prevista a sua volta una crescita dal 52% al 58% mentre per la “G” di Governance si registra una diminuzione di attenzione dal 60% al 53%.*”

La lettura (parziale) che si può dare di questi dati verte sul peso economico dato da un contesto o dall’altro. Detta in poche parole: l’incremento sul fronte ambientale e sociale, ma non su quello dirigenziale, potrebbero essere mossi da interessi economici, dalle richieste di mercato di un miglioramento sostenibile tangibile – la pressione ambientale e sociale – a scapito della governance, meno impattante da questo punto di vista. Niente di male in questo: è inevitabile che senza un tornaconto economico non si possa giustificare una maggiore sensibilità, e se le istanze sostenibili passano da qui, bene lo stesso. Nessun purismo deontologico, solo finalità etiche.

Ma questa tendenza del mainstream, da parte della sostenibilità e dei parametri ESG, potrebbe essere truccata dai meccanismi di greenwashing, ovvero dalla pratica di “falsificazione” dell’attività ambientalista (e sociale), pur di trarne un vantaggio economico. Il punto, qui, non è puntare il dito sulla pratica di “ripulitura ecologica”; subentra, piuttosto, la responsabilità del comune cittadino, e della sua “alfabetizzazione ambientale”. In altre parole, quanto la popolazione è educata alla sostenibilità (ambientale) e come può scegliere in autonomia cosa comprare e cosa no, in base alle etichette e agli slogan posti dalle aziende stesse ai loro prodotti.

Se il comune cittadino non è abituato a riconoscere i prodotti che rispettano gli ESG da quelli che marchiano solo una pubblicità fittizia, a furia di tinte speranzose, è difficile pensare che le aziende possano perdurare e mantenere alta la guardia nei loro parametri di sostenibilità. Produttori e consumatori sono due categorie che si intersecano, nessuno di noi fa l’uno, o l’altro. Gli ESG sono un parametro, fornito annualmente dai bilanci di sostenibilità delle aziende che le redigono – o che sono obbligate a redigerle, tramite normative sovranazionali – ma che al tempo stesso devono passare attraverso la responsabilità comune e l’educazione dell’intera popolazione, e non solo come misura calata dall’alto.

Entra qui un suggerimento “esotico”, poco considerato a livello concettuale e vagamente praticato per i suoi caratteri “estremi”; ma non di meno si tratta di un non valido suggerimento. La parola chiave è “ecosofia”, o deep ecology: il pensiero che si rifà al manifesto redatto dal pensatore norvegese Arne Naess e da George Sessions nel 1984. Il documento stabilisce otto punti in cui si sovverte la visione antropocentrica del mondo, per fondarne una nuova, ecocentrica, dove gli ecosistemi, con i loro abitanti, hanno pari dignità dell’essere umano.

Cosa cambia questo, con la concezione di sostenibilità e i parametri ESG?

In breve, quando pensiamo a sostenere l’ambiente, o i nostri parametri economici, o il nostro sviluppo, lo facciamo in relazione a quelle “generazioni future” che rilanciano a un domani invisibile, e lo facciamo calandoci nel nostro “ecosistema umano” che guarda agli altri circostanti solo come risorse. Il rischio è di avere come obiettivo un futuro che deresponsabilizza, a fronte di un problema presente e costantemente minacciato dal profitto economico.

Riportare una sorta di “umanesimo” e dei suoi valori non solo all’essere umano, ma a tutto il pianeta, permetterebbe di responsabilizzare nel tempo presente le nostre azioni e il loro peso etico, coadiuvando poi il sistema di misurazioni e controlli dati dai parametri ESG per ripristinare un equilibrio presente, che si ripercuota nel futuro. Non solo numeri e grafici, ma un ritorno all’idea di “qualità della vita”, nei suoi rapporti con il circostante, sociale, animato o inanimato che sia. È, sempre, la corda tesa tra la dimensione tecnica e quella etica, sui quali scorrono le idee dell’uomo in termini di sostenibilità e progresso; si tratta di far scorrere il nodo da un verso all’altro, per cercare quell’effettivo equilibrio tra i numeri e le parole.

 

di Damiano Martin

 

 

 

 

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