Il fotoritratto è uno strumento potente in grado di restituire una rappresentazione dell’animo umano. Realizzare quest’opera richiede studio, ore passate a conversare con i soggetti da ritrarre per comprendere il loro carattere, carpire i loro gesti, fissare le loro emozioni. Questo procedimento esprime vita ed ha un impatto sociale in chi guarda le foto. Gli scatti possono ad esempio aiutare ad attraversare un lutto, fare da contraltare alla morte, esprimere il massimo desiderio di attaccamento alla vita di un malato terminale. Per indagare questa tecnica e capire come questa espressione artistica di alto livello ha un effetto positivo per l’uomo, ho intervistato Nausicaa, alias Giulia Bianchi, una fotografa e insegnante di fotografia di livello internazionale. Ha studiato nel 2010 all’International Center Of Photography a New York. Negli anni ha collaborato con fotografi come Mary Ellen Mark e Suzanne Opton. I suoi lavori sono presenti su riviste come The Guardian, National Geographic, TIME, La Repubblica e Internazionale. Quando mi collego in videochiamata con lei, mi risponde da Borzonasca, un paesino di 2000 persone sull’Appennino ligure. Nausicaa è di Genova e ha scoperto questo piccolo borgo ormai tre anni fa decidendo poi di venire a vivere qui.
Come è nata la tua passione per la fotografia e quando hai deciso di farne una professione?

La prima vera foto l’ho scattata a 26 anni quando lavoravo come architetto software nel campo delle telecomunicazioni. Un giorno un mio collega è arrivato in ufficio con diversi libri fotografici pieni di storie di professionisti, che ora nei miei workshop definisco ‘fotografi poeti’. Tra questi c’erano Sally Mann, Andrea Modica, Mary Ellen Mark.
Ho iniziato ad avere diverse idee su ciò che avrei voluto fare; ho deciso che volevo un cambiamento radicale, visto che sentivo che stavo vivendo la vita di qualcun altro. Nutrivo il sogno di diventare io una fotografa poeta.
Nello specifico qual è il tuo genere di fotografia?
Mi riconosco molto nella rappresentazione del reale. Cerco uno stampo documentarista dove si ricerca l’essenza delle cose raccontandole in maniera artistica. In questo senso come fotografa non dico direttamente che cosa dovrebbe pensare chi vede le foto, ma inserisco in queste una combinazione di elementi con la funzione di far venire in mente una serie di domande.
La tua formazione è stata all’International Center of Photography di New York. Come hai maturato questa scelta?
Inizialmente ero andata in Olanda per un’Accademia d’arte specializzata in fotografia. Si trattava di fare però quattro anni che per me era un periodo di tempo troppo lungo. Allora ho scelto l’International Center of Photography, in questo modo potevo fare un anno di scuola e poi un anno di internship con un fotografo.
Come sei riuscita in questa fase iniziale a mantenerti, visto che la fotografia da sola non poteva ancora bastare per sostenerti economicamente?
Quando sei un giovane professionista per poter valorizzare le tue opere, puoi affiancare alla ricerca artistica cataloghi commerciali o lavori per quotidiani e riviste che richiedono foto tutti i giorni. Si tratta di lavorare per dei clienti. Nel mio caso volevo essere una fotografa completamente libera. Per me il lavoro che mi ha permesso di realizzare progetti senza vincoli è stato l’insegnamento. Sapevo da subito che volevo insegnare.
Era una vocazione persino più forte della fotografia. Inizialmente quello che mi mancava era l’esperienza. All’International Center of Photography per i primi due anni mi facevano affiancare altri docenti, non avevo ancora l’esperienza per prendere delle classi in mano. Di conseguenza prima che potessi essere completamente libera, ho vissuto facendo video perchè avevo studiato filmografia. In quel periodo mi è capitato spesso di lavorare per Time Magazine, così come per Suzanne Opton. L’aspetto interessante è che il video veniva pagato di più della fotografia; perciò, potevo lavorare pochi giorni al mese e poi avere tutto il mio tempo per lavorare su un progetto che avrebbe potuto essere finito dopo anni.
Per poter realizzare una fotografia più corrispondente alla realtà e catturare l’animo delle persone, sostieni che è necessario trascorrere del tempo con loro, mettersi nei loro panni e solo in questo modo si può ottenere una fotografia più fedele al reale. Come cogli le emozioni di un tuo soggetto?
Secondo me c’è troppa fotografia turistica, non nel senso di immortalare un monumento, ma andare nella vita di qualcuno che ha un forte dolore. Per capire una persona ci vuole tempo. Bisogna stare con lei, entrare in connessione, capire davvero qual è la sua storia, per provare così a raccontarla attraverso le foto. Sono stata reportagista per diverso tempo, fino a un paio di settimane prima del diploma. Nel reportage ero invisibile, non interagivo con le persone. Mi piaceva definirmi una “mosca sul muro”, quel danzatore che si muove intorno alle cose per raccontarle. Per me, allora, la fotografia era mantenere una certa distanza da ciò che si osserva.
Poi, durante una serata di fine anno del mio corso, ho assistito alla presentazione dei lavori dei miei compagni. Guardando le immagini dei ritratti, ho provato una sensazione completamente diversa: non era più lo sguardo del fotografo-testimone che osserva da fuori. Nel ritratto, la macchina fotografica si pone tra te e un’altra persona, e ciò che catturi non è un semplice momento della sua vita. È come se tutto iniziasse a gravitare intorno a quella persona. Nei ritratti più riusciti, quella persona sprigiona un’intensità incredibile.
Lì mi sono innamorata di questa tecnica. Ho cambiato strada e per la mostra finale ho esposto solo ritratti: erano le stesse persone che avevano partecipato al reportage durante l’anno, ma ritratte.
Dal 2018, non ricordo di aver più scattato una foto senza treppiede. Per me ora la macchina deve stare ferma, nella posizione più bella dell’universo. Ciò che deve accadere è qualcosa di straordinario tra due esseri umani che iniziano a parlarsi, a guardarsi, a svelarsi.
Hai realizzato un workshop al Festival dell’IMP- International Month of Photography- Festival di fotogiornalismo a Padova, sul ritratto, documentario e performance. In che modo si è svolto questo incontro?
All’inizio ho fatto un giro di domande, chiedendo ai partecipanti perché avessero scelto di iscriversi al corso. Questo mi è servito per strutturare la lezione in base alle loro motivazioni.
Abbiamo iniziato parlando di cosa significa fare reportage o realizzare un ritratto. Ho invitato i partecipanti a riflettere su un certo tipo di fotografia che io definisco “da gratta e vinci”: più scatti fai, più aumenti le probabilità di ottenere una foto buona. Per me non funziona così. Fotografare in quel modo rompe il legame emotivo tra il cuore e il pulsante. Bisogna aspettare il momento in cui qualcosa di speciale accade davvero: solo allora quel pulsante va premuto.
Abbiamo discusso di come superare gli stereotipi, di quanto sia importante lavorare con lentezza, in profondità e parlare con una persona prima di fotografarla. Nel pomeriggio ho fatto un ritratto a uno dei partecipanti davanti a tutti, come esempio. Poi li ho mandati in strada, divisi in gruppi da tre: un soggetto, un fotografo e un assistente. Si alternavano dunque nei ruoli. Dovevano fotografarsi a vicenda, mentre io giravo tra loro offrendo suggerimenti, da aspetti tecnici – come evitare il controluce – a consigli su come approcciare e interagire con le persone, anche conoscendoli nel giro di pochi minuti.
Li invitavo a porsi delle domande: com’è quella persona? Ti sembra insicura? Ti è sembrata generosa, appassionata, vulnerabile? Che gesti faceva mentre parlava? Com’era la sua espressione? È proprio questo che bisogna osservare mentre l’altro ti parla: cercare di cogliere aspetti autentici del suo carattere e trasformarli in racconto visivo.
Per me il ritratto è cercare di scoprire qualcosa della persona, e accogliere i gesti che lei ti offre. Osservarli, comprenderli, interpretarli e provare a rievocarli nell’immagine finale.
Ti sei occupata di letteratura e l’uso della parola svolge un ruolo importante anche all’interno dei tuoi progetti. In che modo la utilizzi a complemento della fotografia?
Da piccola mi sarebbe piaciuto fare la scrittrice, potevo scrivere di qualsiasi cosa senza averla vissuta. Poi ho scoperto la fotografia e ho capito che per fare scatti dovevo esserci fisicamente, con il corpo. Sono stata costretta a lavorare proprio su ciò che tendevo a evitare. Ero timida, preferivo immaginare storie da casa. La fotografia mi obbligava a uscire da me stessa, ad affrontare quella sfida.
Questo però non ha mai cancellato il mio amore per la letteratura. Ora sto scrivendo il mio primo romanzo.
Sui giornali e i magazine di solito testo e foto (attraverso le didascalie per esempio) tendono a chiarirsi a vicenda, nell’arte invece cerchiamo di usare la loro ambiguità per aprire ancora di più il mistero.
Il tuo ultimo progetto si intitola “Death Education”, è nato dopo la perdita di una persona cara e ruota attorno al tema della morte. In particolare, c’è stato un episodio significativo in cui hai ritratto uno sconosciuto in riva a un fiume. Gli hai raccontato del tuo lutto e lui ti ha risposto che avrebbe potuto piangere per te. Cosa è scattato in quel momento?
Il lutto è qualcosa di profondamente personale, qualcosa che si porta dentro e che, forse, si condivide solo con chi ha vissuto la stessa perdita. Nel mio caso, si trattava di una mia studentessa. Ne avevo parlato con altri studenti, ma molto poco. Sentivo il bisogno di un linguaggio diverso, di un’arte che potesse aiutarmi a trovare una via di salvezza. Sapevo che avevo bisogno di intraprendere una ricerca, di iniziare una conversazione interiore, ma non riuscivo a trovare il modo.
Poi un giorno, mentre mi trovavo lungo un fiume per un progetto fotografico. Ho incontrato un ragazzo, Davide Giardino, e gli ho chiesto: “Ma tu la faresti una cosa per me? Scenderesti lì al fiume? Saresti il mio autoritratto?”. E lui non solo ha accettato, ma mi ha detto che avrebbe anche pianto per me.
In quel momento ho capito che avevo creato uno spazio dove due persone potevano incontrarsi, portando ognuna il proprio lutto. Non era solo dolore: era un modo per condividere, per essere presenti, per dire “io ci sono”. E questa presenza era qualcosa di profondamente positivo. Ho iniziato a costruire luoghi, nei miei progetti, dove poter parlare di ciò che normalmente è considerato troppo pesante o inappropriato: la morte, il dolore, la perdita. Ma lo scambio che avveniva era uno scambio di amore, una celebrazione della vita e dei sentimenti che abbiamo provato per chi non c’è più.
Ti sono capitati altri episodi simili?
Sì, purtroppo. Nell’ultimo anno mi è capitato di incontrare persone che non hanno ancora vissuto un lutto, ma che sono in fase terminale. È uno spazio completamente diverso, e per me è anche “radioattivo”, perché io non sono un’operatrice sanitaria. Passare due giorni con una persona di 35 anni a cui restano solo tre mesi di vita mi devasta.
Ma una frase che mi ha detto l’ultima persona che ho fotografato in questa condizione mi ha colpito molto: questa donna si è spogliata completamente davanti a me e mi ha detto: “Voglio che tu documenti che questo corpo, questa donna, è esistita.” C’è una fortissima enfasi sulla vita. Ogni volta che insegno, che parlo del progetto, che rilascio un’intervista, spero di lasciare un segno, un pensiero, una visione che possa essere utile anche a chi non conoscerò mai.
In un TEDx, Ines Testoni – docente del master in Death Studies & The End of Life presso l’Università di Padova– ha detto che quando si tratta di morte “non sappiamo piangere e non abbiamo parole per compensarla”. Tu sostieni, in più, che la morte è come un dio onnipotente e silenzioso.
La fotografia può essere uno strumento capace di sondare la morte e renderla, in qualche modo, più accessibile agli occhi dell’uomo?
Da un lato ci sono io come fotografa, con la mia esperienza personale. Le parole che hai citato non sono sociologia né una teoria universale: sono vere per me. Nella fotografia c’è tantissimo inconscio, ci sono elementi che non riesco a dire a voce, ma che emergono dalle immagini. Ci sono state immagini che hanno detto, all’istante, ciò che io ho impiegato anni a trovare il coraggio di dire.

Nel mio caso, le immagini sono state più veloci della parola. E forse è proprio questo che mi fa dire che le mie foto, a volte, sono come una preghiera. Quando non so cosa dire a una ragazza di 35 anni che sta morendo, i miei scatti possono parlare al posto mio. Le mie foto hanno cercato amore, luce, uno spazio da abitare insieme. Hanno cercato di fermare il tempo, di salvarlo. Hanno fatto cose che io da sola non sarei riuscita a fare.
Se invece parliamo della società in generale, allora è un altro discorso. Dopo la Seconda guerra mondiale abbiamo iniziato a rimuovere dalla vita quotidiana tutte quelle esperienze che un tempo avevano un loro rituale: il morto che veniva mostrato ai bambini, le veglie, le preghiere, le donne che preparavano il cibo. Oggi tutto questo è scomparso. Chi, oggi, porterebbe un bambino a vedere un parente defunto? Chi andrebbe con lui in ospedale a salutare una persona cara che sta morendo?
Molti miei amici, adulti, non hanno mai visto una persona morta. Non vogliono vederla. Esiste un grande tentativo di rimozione. Non vogliamo più confrontarci con la nostra mortalità. E questo ha delle conseguenze: se non ritualizziamo la morte, ci restano solo due reazioni possibili – il fanatismo religioso o il panico totale. Ci terrorizza a tal punto che la rimuoviamo finché, inevitabilmente, arriva e ci sconvolge.
Nel master con Ines Testoni si studiano anche le implicazioni culturali di questa rimozione: la paura incontrollabile che niente sopravviva di noi, che la nostra esistenza sia priva di traccia. Ma non possiamo dircelo. Scappiamo da tutto questo.
Per quanto mi riguarda non voglio diventare una quarantenne che si comporta come una quindicenne. Voglio essere un essere umano completo, capace di parlare di abbandono, guerra, morte, libertà, sacrificio. Voglio abbracciare tutta l’esperienza umana, nella sua complessità.
In effetti tu sostieni che quando lavori in camera oscura ti senti, in qualche modo, vicina alla morte. E che nel dar luce a una fotografia, senti anche di restituirle vita.
Sì, è vero. Io sono una persona laica, ma credo che l’esperienza del “rito” non appartenga solo alla religione. Quello che è successo lungo il fiume con Davide Giardino, ad esempio, è stato un atto significativo. Secondo me nel ritratto, due persone che si incontrano, si guardano, si riconoscono. Anche la camera oscura per me è un rito.
Immergersi nel buio, toccare materiali che si trasformano, non è qualcosa di macabro: è come un battesimo, ma con la luce e con i chimici. È un’esperienza che dà significato profondo a ciò che sto facendo. Invece di agire in modo automatico – scattare in digitale, far sviluppare da altri – preferisco questo contatto fisico, diretto, artigianale. È come navigare: c’è chi attraversa il mare su una nave da crociera, divertendosi in una cabina con il casinò. Io, invece, sono quella sulla barchetta a vela, che tocca l’acqua con una mano e sente il vento con l’altra.
La camera oscura è la mia barca a vela. Una ritualità laica che mi permette di connettermi davvero con ciò che sto facendo, con la persona ritratta, con i materiali che uso. Perché la fotografia analogica è fatta di due elementi: un raggio di luce, che dà la vita, e un veleno – la parte chimica– che simboleggia la morte. E a me interessa proprio questo: sentire la vita e la morte dentro ogni immagine, e farne parte attiva della narrazione.