Disclaimer (che in realtà non è un disclaimer, ma una preterata introduzione): nei giorni in cui l’idea di questo articolo prende forma e viene stesa su foglio – elettronico – nella piazza digitale sorge il tam tam per i prossimi spettacoli di stand up comedy, a Milano. Niente di strano, se non per il fatto che gli artisti oggetto di rullanti e grancasse sono anglofoni, famosi, e arrivano a conquistare un paese ancora refrattario alla lingua del Bardo. Ricky Gervais si esibirà a Milano (Unipol Forum) il prossimo 24 luglio; sul fronte teatro Arcimboldi: Louis CK a febbraio 2026, mentre i biglietti per Bill Burr (19 luglio 2025) sono esauriti da due mesi. E i prezzi non sono così popolari. In controbattuta, già standupper italiani si sono affacciati all’estero, portando i loro spettacoli in inglese.
Punte di iceberg in un panorama ben più vasto. Per certi versi, il nome “stand up comedy” è uno dei tanti con cui ci si può riferire nei confronti di uno spettacolo che ha, come obiettivo, far ridere il pubblico. Per altri, ha le sue peculiarità ben precise; “L’origine del termine – secondo Mari Rinaldi – si ha negli USA, dove si dava la parola al pubblico, il quale partecipava attivamente (per questo, stand up) e c’era un certo grado di spontaneità dell’artista, non qualcosa di preparato”. Per Salvatore “Sasà” Belcastro, “la stand up è un’arte performativa in cui non c’è la quarta parete con il pubblico, e la sua caratteristica è la genuinità: ciò si traduce nel portare sul palco sé stessi, la propria vita vissuta, con autenticità e originalità”.
Due facce di una medaglia – meglio, un poligono – di quel che riguarda la risata performativa. Mari Rinaldi si occupa di improvvisazione teatrale da oltre 30 anni; nel 1999 ha fondato la scuola milanese Teatribù. È attrice, autrice e regista teatrale (per spettacoli propri e per altri); ha lavorato per Rai Radio2 e con Paolo Villaggio, e nel 2015 è stata finalista di Italia’s Got Talent. Sasà Belcastro, invece, bazzica attorno alla galassia stand up da 20 anni. Dalla prima esperienza all’Accademia del comico (MI), alla vita a Dublino dal 2010 (impro-teatrale, workshop e open mic in lingua), fino alla svolta degli ultimi dodici mesi: 4/5 open mic al mese, la creazione del Collettivo Margaret con altri standupper, tre serate con loro al Zelig di Milano, tutte sold out.
Sasà: si può parlare di ‘ondata’ di stand up comedy?
“La stand up è (anche) una moda, che probabilmente andrà a scendere. Può essere siamo un po’ tutti stanchi dei social, quindi tanti, con la voglia di esprimersi, usano questa via di comunicazione nuova, dove ci si mette a nudo; per uno che lo fa di mestiere, ‘scoprirsi’ davanti a sconosciuti – usando temi molto personali – è un’emozione che difficilmente si ritrova. Nei social c’è un filtro, mentre davanti alla gente si è soli, e ci sono le persone che vogliono ascoltare. C’è fascino nell’esprimersi in questo modo inconsueto. È insolito”.
“La moda comprende un certo grado di esterofilia – continua Sasà – considerando che nei paesi anglofoni è una forma d’arte normale. Noi (italiani, ndr) veniamo dagli anni del cabaret, in cui si aveva un certo stile; ora, con la stand up, si hanno altri crismi: ‘no personaggi, no accenti diversi, restare genuini’. C’è la moda di importazione, per la quale si segue un certo marketing”. Per Mari Rinaldi, “stand up” è quasi un calco linguistico: “usiamo spesso il termine per definire monologhi e pezzi collaudati, ripetuti una serie di volte; guardando al nome, si è snaturato l’impatto di spontaneità. Eppure, non ci sarebbe niente di male a chiamarli ‘cabaret’ o ‘monologhi comici’; nel mio caso, frequento i luoghi degli open mic quando devo provare monologhi nuovi, e poi li presento come tali quando vengono apprezzati.
Open mic, ovvero: le occasioni in cui, a microfono aperto, chi se la sente – novizi, praticanti, esperti con pezzi nuovi – prova le proprie performance, per esprimersi, o per rimediare all’impossibilità di andare dallo psicologo: “È una forma terapeutica a costo zero – scherza Sasà Belcastro – invece di pagare uno psicologo 80 euro per farsi ascoltare, si racconta la propria vita a 20 persone, a gratis (nota della redazione: senza nulla togliere, anzi rispettando, il lavoro degli psicologi). C’è comunque un sovraffollamento di standupper e open mic, la barriera di ingresso è pari a zero. E fa comodo ai ristoratori, pubblicizzare con questa etichetta; ci si aspetta che chi si esibisce porti amici, e clienti, ma questo rischia di abbassare la qualità della forma d’arte. Si fa presto a prendere la parabola discendente. Si finirà, forse, ad avere open mic di serie A, e altre di serie B, per distinguere”.
Tra i piccoli spettacoli di open mic, e l’Arcimboldi di Milano, pullulano dunque realtà più o meno grandi, reali o digitali: ‘impresari’ del terzo millennio, che fanno da tramite tra aspiranti comici e dà loro la possibilità di esibirsi (in cambio, spesso, di qualche birra), e canali social appositamente creati per pubblicizzare eventi e contenuti, come Be Comedy Uk o Open Minds, per non parlare poi dei canali televisivi e dei relativi programmi, che si sono adeguati allo stile dell’epoca: Comedy Central, Only Fun, LOL. Sono i luoghi di approdo, a cui si arriva dopo gavette più o meno lunghe, più o meno positive, che non si possono sostituire con corsi di formazione o teorie applicate.
A tal proposito: cosa ne pensi dei corsi per imparare la stand up? Fanno parte, secondo te, delle miriadi di corso di formazione che vengono promossi un po’ ovunque?
“Se noti – risponde Sasà – ci sono tantissimi corsi di introduzione alla stand up, ma non esistono livelli medi o avanzati. I corsi di formazione sono sacrosanti: danno un’infarinatura di strumenti base, la teoria, i consigli. Poi però bisogna sporcarsi le mani: il solo corso non fa di una persona un o un’artista. Per quello, serve il palco”. Poi però c’è la ‘formazione personale’: “Sono andato di mia volontà a Londra – continua – per capire come si fa lì stand up. Ho fatto un workshop di una settimana dove si è parlato soprattutto di crowd work: l’interazione con il pubblico. È il tratto fondamentale: bisognerebbe esibirsi come se si stesse parlando al bar, con un amico, seguendo però un canovaccio. Il crowd work si fa nei locali; a teatro è più difficile”.
Tornando ai locali, come già detto – per moda, convenienza e necessità – giocano su questa forma d’arte, nel bene o nel male: “Una volta erano la band ad andare in giro per i locali, a suonare (in cambio della mistica “visibilità, ndr). Adesso si fanno gli open mic, e le band sono scomparse. Fare open mic costa meno, a chi li fa e a chi li ospita, e qualche esercente ha pure la pretesa che chi si esibisce debba portare pubblico (in cambio di 6 minuti di visibilità e una birra). Non dovrebbe funzionare così: il locale porta i clienti, gli artisti l’esibizione, e ognuno dovrebbe fare il proprio lavoro”, spiega Mari Rinaldi.
“Più che una moda – continua – mi pare un plus di locali che vogliono avere più pubblico. Poi, rimane un ottimo modo per fare esperienza performativa, per tanti. Pensando ai giovani, il fenomeno esiste; i social sono pieni di annunci di spettacoli e di ricerca di standupper. Cambia il linguaggio, e questo lo posso più o meno capire, ma, secondo me e al di là del gusto personale, c’è una pochezza di fantasia generale: va bene essere crudi, ma se i temi, e il linguaggio (scurrile) sono sempre gli stessi, allora è un peccato. Manca, sempre in generale, una riconoscenza del lavoro e della professionalità, nel fare questo mestiere”.
Ma allora, Mari, la domanda che sorge è: cosa significa far ridere?
“Ti rispondo da autrice: quando il pubblico ride, lo fa per due motivi. O si parla di qualcosa in cui la gente si riconosce e si ritrova, oppure ride perché viene spiazzato dalla battuta. Tutto il resto è un de gustibus. Poi ci sarebbe la regola del ‘salvamento’: la gente ride quando tira un sospiro di sollievo, di fronte a un protagonista che rischiava di farsi molto male, e alla fine sopravvive (come Gatto Silvestro, o Willy E. Coyote). Ma questo non succede nella stand up, perché non c’è immagine, ma narrazione. Bisogna arricchire di dettagli comici, ma questo spesso non succede per vittimismo o per stereotipia. Manca la voglia di rischiare”.
“Poi un po’ di giustizia c’è: quelli bravi vanno avanti e alla fine arrivano al grande pubblico, come Federico Basso, per esempio, dopo vent’anni di gavetta. La comicità – conclude Mari – ha ancora un’aura di eroicità: permette di farsi vedere, conoscere, per poi eventualmente diventare altro (attori, presentatori…). L’importante, però, sembra la visibilità. E allora secondo me, accadranno due cose in futuro: a causa della povertà la gente starà a casa, a guardare il telefono; oppure lo smartphone imploderà, e avremmo voglia di tornare a fare cose belle, dal vivo, che non sia andare al bar e bere ma per fare arte”.
Cos’è quindi stand up? Una performance comica; un modo di esprimersi; una coda sociale dei fenomeni social in cui battute one liner o sketch sono facilmente fruibili; una seduta gratuita dallo psicologo (cit.). Nel suo piccolo (forse, piccolo), la stand up sembra un termometro sociale, un polso della situazione discretamente caotico a cui tutti siamo partecipi, spettatori e performer, in modo molto più democratico di un’elezione. C’è una giungla, una sua regola “omologante”, e poi le eccezioni. C’è da capire se, a forza di eccedere, non sia la normalità a diventare eccezionale: la professionalità, la serietà, la responsabilità, il lavoro artistico per sé, agli altri.
Ora scusate, torno al disclaimer iniziale: devo spendere 149,50€ + commissioni per vedere Ricky Gervais al Forum, biglietto intero, primo settore numerato.
di Damiano Martin