Il dato è spaventoso e, si prevede, crescerà. I cambiamenti climatici hanno ridotto alla fame 735 milioni di persone senza che gli Stati – i ricchi, ovviamente – si siano impegnati a rimuovere i fattori aggravanti. Ma cosa possono o – si spera- devono fare? Realizzare politiche distributive degli alimenti verso quelle zone del mondo dove il clima fa i maggiori danni. La risposta è netta ma con ragione.
Si può immaginare di promuovere anche una rete di mercati contadini in aiuto di chi soffre? Una soluzione di questo tipo è stata discussa al recente World Farmers Markets Coalition a Roma. In pratica un’assemblea dei produttori agricoli di decine di paesi. In tante parti del pianeta il clima si è ormai trasformato da alleato a nemico, modificando la catena del valore in maniera strutturale. La metamorfosi è costante e divide il mondo più dei conflitti bellici. Non è difficile capire dove pende la bilancia. È sbilanciata dalla parte delle multinazionali, che a parere del World Farmers impongono “omologazione e cibi ultraprocessati”. La crepa che abbiamo davanti è, dunque, indicativa dei bisogni da una parte e degli affari dall’altra.
Il diritto al cibo come requisito democratico può ritornare al centro di strategie universali ma solo se i Poteri rinunciano a parti della propria forza. Solo in parte, giacché pensare al tutto è illusorio. La girandola di investimenti delle grandi aziende del food non tiene in conto il fabbisogno alimentare di chi si trova ai margini della vita sociale. D’altra parte gli sprechi delle zone del mondo opulente, sono la migliore conferma alle ipervendite di prodotti poco eco.
I sistemi alimentari un tempo venivano costruiti dal basso secondo le stagioni climaticamente poco variabili e tenevano in un certo equilibrio bisogni e affari, per l’appunto. L’agricoltura familiare era diffusa ed ha avuto un senso finché non si è resa necessaria la rifondazione dei raccolti, l’uso di prodotti chimici devastanti, tecniche di coltivazione. Nei paesi in via di sviluppo quelle modalità arcaiche hanno resistito, assicurando il poco a milioni di esseri umani. I cambiamenti climatici e l’alterazione della biodiversità hanno fatto, infine, tabula rasa anche del minimo.
“All’origine dell’insicurezza alimentare ci sono gli squilibri nella distribuzione delle risorse” hanno denunciato a Roma. I numeri dicono che i piccoli coltivatori gestiscono meno di un terzo delle terre coltivate ed è un altro allarme. La loro necessità di far fronte ai disastri ambientali è palese, ma ovunque hanno chiesto e ottenuto sussidi pubblici. L’Europa è il continente che eroga più risorse pubbliche all’agricoltura che in buona sostanza restano dentro il mercato dei 27 paesi membri. Miliardi di euro in uscita dai bilanci statali per diventare comunitari contestati anche, come avvenuto con la triste protesta dei trattori. Fuori dal mercato europeo, contando su migliaia di aziende irrobustite dagli euro della Politica europea comune, può essere la strada per sviluppare un nuovo network agricolo solidaristico in grado di rallentare o arrestare la crescita degli spaventosi numeri dei senza cibo. È evidente che sarebbe una scelta umanitaria forte, scaturente dai sostegni pubblici ricevuti. Le multinazionali sono da un’altra parte. I milioni di persone che non hanno di che mangiare, soggiogati da alluvioni, carestie, siccità nella buona prospettiva di una sorta di mercato parallelo saprebbero distinguere gli amici dai (tanti) nemici. Basta iniziare a mettere i mattoni.
Di Nunzio Ingiusto