Che cos’è il futuro, se non una promessa tradita ogni volta che ci riuniamo per parlarne? Quest’estate, come ogni estate, le Nazioni Unite celebreranno la loro liturgia planetaria a New York: l’High-Level Political Forum on Sustainable Development. Un nome interminabile, pomposo, quasi ridicolo, come se la complessità bastasse a legittimare l’impotenza.
Dal 14 al 23 luglio 2025, ministri, ambasciatori, burocrati, accademici e attivisti riempiranno le sale vetrose del Palazzo di Vetro per declamare la loro fede nei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile stabiliti dall’Onu 10 anni fa. Quest’anno – dicono – si concentreranno su salute, parità di genere, lavoro dignitoso, oceani e partenariati. Un elenco nobile, sacrosanto. Ma io mi chiedo: quante volte lo abbiamo già letto, ripetuto, applaudito? E quante volte lo abbiamo tradito?
Non si tratta di un convegno qualunque. Si tratta dell’ennesimo appello disperato a un’umanità che ha firmato il suo stesso suicidio. I dati ci urlano contro: il cambiamento climatico divora le stagioni, gli oceani si riscaldano come febbri tropicali, le specie scompaiono con la discrezione dei morti di fame. I nostri mari sono pattumiere chimiche. I nostri lavoratori, numeri sacrificabili in una contabilità globale che chiama “efficienza” il ricatto e “flessibilità” la schiavitù.
Eppure ci ritroveremo lì, a parlare ancora. A redigere “Voluntary National Reviews”, come se bastasse la confessione pubblica dei nostri peccati a lavarli. A organizzare “side events” dai titoli accattivanti – Evidence to Impact, Science Day – per dare alla coscienza un alibi scientifico. A vantare la presenza delle donne nei panel, quando nel mondo reale partoriscono sotto le bombe, muoiono di parto, vengono vendute come bestiame e non possono nemmeno accedere all’istruzione.
Dicono che il Forum è «la sede principale per il follow-up della Agenda 2030». L’Agenda 2030: un manifesto di speranza, scritto nel 2015, che oggi suona come una lettera dal fronte di una guerra persa. Mancano cinque anni alla scadenza. Cinque. E siamo più lontani dagli obiettivi di quanto non fossimo ieri.
Non è che non sappiamo cosa fare. Lo sappiamo benissimo. Ridurre le emissioni. Proteggere le acque. Investire in salute e istruzione. Redistribuire ricchezza. Ma non vogliamo pagare il prezzo politico, economico, culturale che questo comporta. Vogliamo la pace senza rinunce, la giustizia senza scontentare i potenti, la prosperità senza ridurre il nostro lusso.
Sarebbe ingiusto, però, deridere in modo indiscriminato chi partecipa al Forum. Molti ci credono. Lottano. Denunciano. Portano la voce di chi non ne ha. Alcuni governi presenteranno davvero bilanci coraggiosi. Ma non basta. Perché la verità è che il sistema stesso – questo mondo regolato dal denaro e dal potere – è irriformabile senza uno scossone radicale. E il Palazzo di Vetro non è stato costruito per i terremoti, ma per contenerli.
Voglio però credere che qualche giovane delegato, qualche tecnico onesto, qualche ministro stanco di mentire possa alzarsi e dire: «Basta. Basta bugie. Basta promesse vuote». Che possa gridare come Antigone davanti al re: «Non obbedirò a leggi ingiuste».
Perché di questo abbiamo bisogno. Non di un altro rapporto. Non di un altro piano decennale. Ma di una coscienza. Una coscienza globale che smetta di dividersi in nazioni, razze, caste, generi. Una coscienza che non abbia paura di rinunciare a un privilegio per salvare una vita.
A luglio, a New York, si celebra la grande messa della sostenibilità. Vi prego, almeno stavolta, non dite «Amen» senza sapere cosa state consacrando.
di Isabella Zotti Minici