Ferdinando De Giorgi, leggenda della pallavolo italiana e protagonista della “Generazione dei Fenomeni”, rappresenta un simbolo di leadership e innovazione tanto in campo quanto fuori. Con un palmarès straordinario che lo vede vincitore di tre campionati mondiali consecutivi da giocatore (1990, 1994, 1998) e di un oro europeo da allenatore nel 2021, De Giorgi ha lasciato un segno indelebile nella storia dello sport. Nel suo percorso, si è distinto per la capacità di trasformare le sfide in opportunità, guidando le squadre attraverso cambi generazionali e valorizzando le persone oltre i risultati tecnici.
L’attuale CT della Nazionale di volley maschile ci ha concesso un’intervista esclusiva sul suo ultimo libro “Egoisti di squadra. Esaltare il gruppo senza sacrificare il talento”.
Com’è nata l’idea di questo libro?
Questo libro nasce dalla curiosità del mio editore per la nazionale di pallavolo maschile che ho formato nel 2021, con la quale ho realizzato un cambio generazionale.
Il desiderio era quello di capire la storia e le origini del mio metodo di lavoro, al di là della parte tecnica.
Nel libro si discutono strumenti utili ai leader, ripercorrendo la mia esperienza degli ultimi 25 anni. Nei miei progetti, la persona è costantemente al centro: la crescita della squadra è legata a quella dei singoli, e il coinvolgimento dell’intero staff nel percorso ha un ruolo fondamentale.
Ho deciso di mettere nero su bianco la mia avventura, arricchendo l’inizio di ogni capitolo con aneddoti sulla pallavolo e affrontando poi tematiche trasversali come i valori, l’educazione, la crescita personale e la gestione di un team, argomenti che possono interessare anche chi non opera nel settore sportivo.
Per la stesura del libro hai coinvolto il pedagogista Giuliano Bergamaschi. Perché hai fatto questa scelta?
Giuliano Bergamaschi è uno degli elementi più longevi del mio staff tecnico. Ho sempre pensato che le persone facciano la differenza, e questo principio ha influenzato anche la creazione del mio team.
Come allenatore, ho scelto di essere supportato in tre ambiti fondamentali: il lato tecnico, quello fisico e quello umano.
Non mi interessava tanto la performance fine a sé stessa; volevo raggiungere i risultati tramite la crescita e il miglioramento delle persone sotto tutti i punti di vista: caratteriale, comportamentale e valoriale. L’apprendimento è sempre stato una delle fondamenta del mio lavoro.
Al di là della schiacciata, dell’attacco o del punto, gli elementi importanti in un gruppo sono i valori, il rispetto e la disponibilità. In questo contesto, il contributo di Giuliano Bergamaschi, che ho conosciuto quando giocavo a Montichiari, è stato fondamentale.
Nel tuo libro riprendi un proverbio: “Meglio arrossire prima che sbiancare dopo”. Sottolinei l’importanza di affrontare le situazioni senza paura, a costo delle conseguenze. Che ruolo ha il coraggio nel comportamento di un leader?
Anzitutto, sottolineo che avere coraggio non significa non provare preoccupazioni o paure. Il coraggio è la forza che ti spinge a rompere con ciò che è facile e comodo, a uscire dalla tua zona di comfort. Questa rottura è necessaria, perché chi guida deve prendere decisioni, anche difficili.
“Arrossire prima, piuttosto che sbiancare dopo” significa affrontare subito le situazioni, un concetto che fa parte di una mentalità vincente. Chi affronta i problemi per risolverli, non per avere ragione, ottiene il successo. Se invece si evitano le difficoltà per comodità, alla fine se ne pagano le conseguenze. Il coraggio è quindi una caratteristica imprescindibile di chi ha responsabilità.
Quali sono gli aspetti essenziali della leadership che, dallo sport, possono essere applicati al mondo aziendale?
In primo luogo, una solida conoscenza della materia: un leader deve sapere di cosa sta parlando. Questo richiede aggiornamento continuo, ricerca e miglioramento personale.
Un altro aspetto fondamentale è l’esempio: chi guida un gruppo deve essere coerente con i valori, le regole e gli obiettivi che promuove. Essere d’esempio è difficile, perché richiede costanza dal primo all’ultimo giorno, non solo quando se ne ha voglia.
Infine, la giustizia: ciò che concedi a una persona, lo devi concedere a tutti. Altrimenti, rischi di compromettere il lavoro svolto.
Nel tuo libro descrivi la tua esperienza come allenatore-giocatore a Cuneo (2000-2002). Qual è stata la lezione più importante di quel periodo?
La lezione più importante è stata comprendere l’importanza di uno staff di alto livello: un gruppo di persone competenti, leali, che si possa stimolare continuamente e a cui delegare con fiducia.
Un’altra lezione è stata affrontare subito anche le piccole crisi, perché il doppio ruolo era ambiguo e richiedeva grande chiarezza.
Mi sono fatto una domanda chiave: “Quello che sto facendo è utile o comodo?”. Questa domanda mi ha aiutato a prendere decisioni utili per il funzionamento della squadra, evitando quelle più facili o convenienti.
C’è un passaggio dove spieghi come i ragazzi di oggi vivano in un contesto fluido e privo di riferimenti, con adulti spesso scontenti e concentrati su preoccupazioni materiali, a scapito dei bisogni veri. In che senso l’unico modo per risolvere questo problema è offrire ai giovani delle opportunità?
Offrire opportunità significa creare stimoli, motivazioni e situazioni in cui i giovani possano trovare la loro strada.
Quando nel 2021 ho effettuato il cambio generazionale, ho dato a molti ragazzi “luce e spazio”: “luce” per mettere in evidenza il loro talento e “spazio” per creare un ambiente in cui potessero esprimersi al meglio.
Questo include non solo aspetti tecnici e fisici, ma anche la capacità di affrontare le esperienze. Per esempio, nella nazionale abbiamo attribuito grande importanza al senso di appartenenza e al valore della maglia, oltre che all’approccio all’errore, alla sconfitta e alla vittoria.
Un errore non deve mai essere visto come un’incapacità, perché altrimenti i ragazzi si tirano indietro e smettono di osare. Dobbiamo invece offrire loro la possibilità di sperimentare, crescere e sbagliare senza timore.
Qual è l’insegnamento più grande che hai imparato dalla tua esperienza da allenatore in Siberia?
La mia esperienza in Russia è nata dal bisogno di mettermi in discussione. Arrivato a un certo punto della carriera, mi sentivo troppo sicuro di ciò che facevo: tutto sembrava sotto controllo, dalla programmazione al lavoro. Questo, però, per chi opera in un ambiente competitivo, rappresenta un rischio. Senza sfide e cambiamenti non si cresce.
Ho scelto quindi di andare all’estero, in un contesto nuovo e diverso. Il campionato russo era tra i più importanti, così ho deciso di lavorare in Siberia. L’adattamento è stato un processo interessante: affrontare la diversità richiede uno scopo forte. Se non hai uno scopo chiaro, ogni ostacolo diventa una scusa per fermarti. In Siberia ho imparato che il cambiamento è una necessità per migliorare e crescere.
In apertura del libro citi Papa Francesco, che definisce lo sport un segno di unità e integrazione in un mondo dove si sgomita per apparire ed emergere a ogni costo. In che modo, secondo te, lo sport può essere un motore di inclusione sociale?
Bisogna fare una distinzione: lo sport per tutti, inteso come attività accessibile a chiunque, è un potente strumento di inclusione. Aiuta a integrare e superare le differenze.
Lo sport ad alto livello, invece, richiede una selezione: ci sono differenze fisiche e tecniche che non possono essere ignorate. Tuttavia, anche a livello competitivo, lo sport favorisce l’integrazione. Ho allenato squadre con giocatori di diverse nazionalità – polacchi, giapponesi, cubani, serbi – e questo ha arricchito il gruppo.
Le differenze, se usate come risorsa, diventano un punto di forza. Anche nello sport di élite, pur con i suoi limiti, si creano spazi di collaborazione, apertura mentale e disponibilità.
In un tuo TEDx hai raccontato di come una frase “De Giorgi è bravo, ma se avesse 5 cm in più” ti abbia insegnato un metodo di vita. Quanto è importante concentrarsi su ciò che si ha, piuttosto che sui propri limiti?
Quella frase mi ha insegnato che le persone tendono a vedere più i difetti che le potenzialità. Io, invece, ho deciso di concentrarmi su ciò che avevo e di lavorare al massimo per superare i miei limiti.
Non avendo un’altezza eccezionale per la pallavolo, ho cercato di bilanciare questo svantaggio con tecnica, strategia e modo di stare sul campo. Il successo, per me, non è perfezione, ma il raggiungimento di equilibri vincenti.
Questo approccio mi ha aiutato a trasformare un possibile deficit in un punto di forza, insegnandomi a valorizzare ciò che si possiede.
Un elemento chiave del tuo libro è il senso educativo della perdita. Come si può imparare a “lasciar andare”?
La sensazione di avere tutto sotto controllo può sembrare rassicurante, ma è pericolosa. In un ambiente competitivo, il cambiamento è essenziale per migliorare. Le sconfitte e gli errori sono momenti fondamentali: offrono spunti per crescere, se vissuti nel modo giusto.
Cercare la perfezione a tutti i costi o rifiutare l’errore porta solo angoscia. I grandi leader e atleti sono quelli che sanno reagire alle difficoltà, usandole per fare meglio la volta successiva.
Ho adottato una filosofia: “Deprimersi con coraggio e festeggiare con sobrietà”. Accettare la sconfitta richiede forza, ma permette di ripartire. Delegare è altrettanto importante: un leader non può fare tutto da solo. Dare fiducia agli altri è essenziale per costruire un team efficace e per evitare di naufragare nella propria ansia di controllo.
di Marco Camporese
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