E se la “sostenibilità” fosse soltanto un termine di moda?
Ho sempre diffidato delle mode. Di quelle verbali, soprattutto. Per anni, “sostenibilità” è stata una parola buona per ogni stagione, sventolata come una bandiera da chi non sapeva nemmeno cosa fosse un bilancio ambientale, né una catena di fornitura etica. Una parola evergreen, masticata nei consigli di amministrazione, nei convegni con buffet bio, nei comunicati pieni di “vision”, “purpose” e “stakeholder engagement”. Per poi finire lì. Un mero esercizio di pubbliche relazioni. Fumo. Vetrina.
Ma adesso, finalmente, arriva il conto.
Il 2025 non è un anno come gli altri, per la sostenibilità quella vera. È una diga che si rompe. Una scadenza che toglie ogni alibi. Da oggi, per 50 mila aziende in Europa, e quindi anche per molte in Italia, il bilancio di sostenibilità non è più un vezzo: è un obbligo. Un documento che deve dire la verità. E se non la dice, mente davanti alla Legge. Chi supera i 40 milioni di fatturato, chi ha più di 250 dipendenti, chi siede su un attivo patrimoniale da oltre 20 milioni di euro, ora deve dimostrare, riga per riga, qual è il suo impatto sull’ambiente, sulla società, sul governo interno. Non c’è scampo. Non c’è scorciatoia.
E non si parla solo di numeri. Si parla di etica. Di scelte. Di futuro.
Il bilancio di sostenibilità 2025 non è solo un foglio Excel con qualche percentuale sulle emissioni ridotte. È la radiografia dell’anima di un’impresa. Chi sei davvero, come produci, chi sfrutti, quanto inquini, a chi dai conto. Perché non basta più piantare alberi per ripulirsi la coscienza, da adesso in poi serve un piano. Serve una transizione vera. Serve il coraggio di rinunciare a utili immediati per un futuro collettivo più equo.
E a chi dice che sono solo obblighi, solo scartoffie, rispondo: meglio la burocrazia della menzogna.
Perché per troppo tempo le imprese hanno giocato a nascondino. Ora la direttiva CSRD dice basta. La stagione delle parole è finita. Servono i dati. I numeri. I fatti. I “transition plan”. I tempi. I capitali. E non si scappa nemmeno con i fondi d’investimento. Se nel 2024 i green bond hanno toccato il 60% delle emissioni obbligazionarie, nel 2025 il nuovo standard europeo impone l’allocazione reale: almeno l’85% dei proventi dovrà andare a investimenti allineati con la Tassonomia UE. È il momento della verità, che certamente non fa comodo a tutti.
Non la fa, ad esempio, al mercato della difesa. Che oggi si divide fra chi, come Etica SGR, rifiuta qualsiasi compromesso e chi cerca di mimetizzarsi dietro criteri selettivi. Ma possiamo davvero parlare di sviluppo sostenibile se ci riforniamo di dividendi macchiati dal sangue delle guerre? Possiamo pretendere trasparenza, se poi accettiamo che le bombe siano etiche “a seconda dei casi”? No. La coerenza è indiscutibile.
Certo, gli investitori sono sotto pressione. Trump ha stravolto le regole. Ha sfilacciato gli accordi, promosso il ritorno agli idrocarburi, e colpito al cuore ogni tentativo di pianificazione globale. Ma se proprio in mezzo alla tempesta il 77% degli investitori globali continua a puntare sull’ESG, allora vuol dire che il mondo ha finalmente imparato. Che il rischio climatico non è più solo un capitolo nei rapporti del WEF, ma un costo reale: 320 miliardi di euro di perdite solo nel 2024. E solo metà assicurate. Lo capisce chi ha occhi. Chi ha memoria. E chi ha dignità.
Il tempo delle intenzioni è finito. Ora si chiede concretezza. Chi non ha ancora adottato criteri ESG, lo farà. Chi ha imbrogliato, sarà scoperto. Perché oggi, più che mai, la sostenibilità è diventata un termometro di civiltà. Non è ideologia, è sopravvivenza. È reputazione. È strategia. È futuro. E chi non sa immaginarlo, non merita di guidare un’impresa. Chi non sa cambiare, non merita fiducia.
Ecco, allora, che l’obbligo del bilancio di sostenibilità 2025 è una chiamata alle armi. Non quelle di metallo, ma quelle della responsabilità. Della coerenza. Dell’onestà. Perché il mondo è stanco di chi racconta favole. E ha fame, invece, di chi si assume le proprie colpe. E prova, almeno una volta, a fare la cosa giusta.
Non per moda. Ma per dovere.
di Isabella Zotti Minici