Il mondo dopo la pandemia ha smesso di crescere dove conta davvero: nella vita, nella scuola, nella dignità. Il nuovo rapporto dell’ONU sull’Indice di Sviluppo Umano racconta una verità scomoda. E ci riguarda tutti.
C’è una curva. Un grafico. Un tratto piegato verso il basso, che racconta meglio di mille editoriali l’agonia silenziosa dello sviluppo umano. Non parlo di missili, né di guerre visibili. Parlo di numeri. Di statistiche che, come lame sottili, incidono senza clamore ma fanno male. L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sull’Indice di Sviluppo Umano (HDI), pubblicato il 6 Maggio 2025, dice la verità che nessuno vuole sentire: ci stiamo fermando. Il mondo – questo mondo che corre, urla, consuma, pubblica, cancella – sta rallentando proprio dove non dovrebbe: nella vita, nella scuola, nel reddito. Nell’essere umano.
L’HDI – lo ricordiamo – misura tre parametri fondamentali: l’aspettativa di vita alla nascita, la durata media e prevista dell’istruzione, e il reddito nazionale lordo pro capite. Dopo il PIL, è il metro più usato per misurare lo sviluppo umano. E per la prima volta dalla sua nascita, nel 1990, ha registrato due anni consecutivi di calo: 2020 e 2021. Colpa del Covid? Certo. Ma non solo. Nel 2023, a pandemia finita, la crescita dell’indice è rimasta la più lenta di sempre. L’umanità è in stallo.
Si pensava a un inciampo. A un’eccezione. E invece no. Il divario si allarga: il 97% dei Paesi ricchi ha recuperato o superato i livelli pre-Covid. Meno del 60% dei Paesi poveri ci è riuscito. Il Sud Sudan – il fanalino di coda – ha una speranza di vita di 57,9 anni, una media scolastica inferiore a sei anni e un reddito annuo di 688 dollari. L’Italia, 29ª in classifica, ha 83,7 anni di vita attesa, 16,7 anni di scuola, e un reddito pro capite di oltre 52.000 dollari. Il divario tra i primi e gli ultimi è aumentato per quattro anni consecutivi.
Ma non è solo un problema tra Paesi. È anche dentro i Paesi. In Inghilterra, ad esempio, la speranza di vita tra i quartieri più poveri e quelli più ricchi può variare di oltre 10 anni. In Brasile, l’aspettativa di vita per i neri è inferiore di sette anni rispetto ai bianchi. In India, le bambine appartenenti alle caste più basse hanno un tasso di mortalità infantile del 50% più alto rispetto alla media nazionale.
Nel 2000, si sperava che entro il 2040 il divario di aspettativa di vita tra i Paesi più sviluppati e quelli meno sviluppati scendesse sotto gli 8 anni. Oggi, quel divario è ancora di oltre 17 anni. In Giappone si vive in media 84,8 anni. In Lesotho, 51,6.
E mentre il Sud globale arranca, il Nord taglia gli aiuti. L’Europa, impegnata a far quadrare bilanci interni e frontiere esterne, ha ridotto di oltre il 10% gli investimenti in cooperazione internazionale negli ultimi due anni. Gli Stati Uniti hanno ridotto del 17% i fondi per la salute globale. E nel frattempo i budget per la difesa esplodono: nel 2023, il mondo ha speso oltre 2.443 miliardi di dollari in armamenti. È il massimo storico.
È come dire al mondo: “Sopravviva chi può”. E chi non può, si arrangi. Ma quel mondo che ignoriamo ci guarda. E i bambini che oggi non vanno a scuola saranno gli uomini e le donne che domani migreranno, protesteranno, si ribelleranno o moriranno in silenzio.
In questo scenario cupo, si affaccia anche un paradosso feroce: l’intelligenza artificiale. Mentre miliardi di esseri umani non hanno accesso all’istruzione primaria, una parte del mondo investe miliardi in algoritmi, automazione, cervelli sintetici che parlano, scrivono, calcolano, simulano. L’AI potrebbe essere uno strumento straordinario di emancipazione: potrebbe personalizzare l’apprendimento, prevenire le malattie, ottimizzare le risorse. Potrebbe. Ma non lo fa. Perché nessuno, o quasi, ha pensato di metterla al servizio degli ultimi. Dei dimenticati. Senza un disegno etico, senza una volontà politica, l’intelligenza artificiale non riduce il divario. Lo allarga. Lo trasforma in un abisso digitale. Ingiustizia economica, sociale, sanitaria… e ora anche algoritmica. Chi ha accesso ai dati vive. Chi non ce l’ha, sparisce. Non è solo uno scandalo. È un crimine. Silenzioso, ma sistematico.
L’Agenda 2030 dell’ONU – che prometteva salute, istruzione e dignità per tutti – oggi appare come una preghiera disillusa. I progressi in termini di sviluppo umano, se continueranno a questo ritmo, raggiungeranno i livelli sperati non nel 2030, ma nel 2080. E forse neanche allora.
L’Italia ha una responsabilità. L’Europa ha una responsabilità. Non solo morale, ma politica, storica, esistenziale. O il Vecchio Continente torna a investire sullo sviluppo umano globale, o diventerà un fortino decadente circondato da dolore e rabbia. E allora nessun muro sarà abbastanza alto.
Il futuro ci guarda. E non sorride. Perché ha capito che non abbiamo imparato niente. Nemmeno dopo una pandemia.
5 VERITÀ SCOMODE SULLO SVILUPPO UMANO
- +52.000 dollari vs 688 – Reddito nazionale lordo pro capite: Italia 52.000 dollari, Sud Sudan 688. Due mondi sullo stesso pianeta.
- 83,7 anni vs 57,9 – Aspettativa di vita alla nascita: 25 anni di differenza tra Italia e Sud Sudan.
- 97% contro 60% – Quasi tutti i Paesi ricchi hanno recuperato i livelli di benessere pre-Covid. Solo 6 Paesi poveri su 10 ci sono riusciti.
- 13 volte più probabile morire da piccoli – Un bambino nato in un Paese povero ha 13 volte più probabilità di morire prima dei 5 anni rispetto a uno nato in un Paese ricco.
- 2.443 miliardi di dollari in armi – Mentre l’HDI rallenta, la spesa militare mondiale raggiunge il massimo storico. E cresce.
di Isabella Zotti Minici