“Amiamo il nostro lavoro e non credo che abbiamo compromesso i nostri valori per diventare quello che siamo oggi”. E’ in questa dichiarazione, di Yvon Chouniard, contenuta nel libro “Let my people go surfing”, che si racchiude l’essenza di Patagonia. Si parla di un brand di abbigliamento outdoor che ha saputo fare impresa restando fedele a un’etica profondamente rispettosa nei confronti dell’ambiente. Chouinard, alpinista e surfista californiano, da vita a Patagonia con l’obiettivo di “mettere in pratica quello che tanti libri apocalittici ci consigliano urgentemente di fare”, consapevole che il tempo delle parole è finito. Lui, che in realtà non ha mai voluto essere un uomo d’affari, oggi delinea la mission della impresa come “un business per salvare il mondo”. L’origine stessa dell’azienda è un atto ecologico: Patagonia fu tra le prime realtà a rinunciare alla vendita dei chiodi da arrampicata, che pur costituivano il fulcro della sua attività, in quanto danneggiavano irrimediabilmente le pareti rocciose. Una scelta controcorrente, coraggiosa, che incarnava una convinzione profonda: la montagna va vissuta senza lasciare tracce. In un contesto globale in cui nel 2007-2008 – come mostrano i sondaggi Gallup – il 38% della popolazione mondiale non conosceva il riscaldamento climatico o non aveva opinioni in merito, la società californiana ha scelto non solo di agire, ma anche di educare. Il sentimento che si percepisce dalle parole di Chouinard – “Mi dà dolore constatare come l’umanità sia la causa della sesta estinzione di massa” – è lo stesso che traspare nelle scelte aziendali. Nel 2011 Patagonia diventa società benefit. Nel 2022, l’imprenditore americano ha donato il 98% dell’azienda a un’organizzazione no-profit, Holdfast Collective, e il restante 2% a un trust, Patagonia Purpose Trust, per sostenere la lotta contro il cambiamento climatico. Patagonia invita a vivere per ciò che conta, non per consumare. Un pensiero rilanciato da Naomi Klein nella prefazione al libro del fondatore dell’azienda:
“Se comprassimo per vivere invece di vivere per comprare?”. Una domanda scomoda in un’epoca in cui l’identità si misura (ancora) in base al possesso. Una sfida frontale alla cultura del consumo che, come sottolinea Klein, è “al cuore dell’attuale crisi ecologica globale”. Ma la storia di Patagonia è anche un racconto di indipendenza, di semplificazione come arricchimento, in altre parole di un ritorno all’essenziale. In un mondo in cui persino le aziende più responsabili nascondono (volontariamente o meno) i propri scheletri nell’armadio, l’impresa californiana rappresenta un’eccezione che ha fatto scuola. Un’azienda capace di guardarsi dentro, ammettere gli errori, evolvere, senza mai tradire i propri principi. L’esperimento Patagonia continua. E ci pone delle domande difficili su cui interrogarci: Che mondo vogliamo costruire? E che ruolo devono avere le aziende per renderlo possibile? Forse, come suggerisce Chouinard, dovremmo imparare a scalare anche noi: affrontare la fatica del cambiamento, con passo deciso, lasciando meno tracce possibili.