È il 9 dicembre 1973, e il Corriere della Sera pubblica nelle proprie pagine l’articolo di Pier Paolo Pasolini dal titolo “Sfida ai dirigenti della televisione”. Nel pezzo, l’intellettuale bolognese espone un concetto più volte ripetuto, poi – esplicitamente o meno – nella collezione di articoli Scritti corsari, edito due anni più tardi. La citazione: “Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi”.
L’aggancio al 27 gennaio, al Giorno della Memoria, è scontato, banale, noto. “Fascista” è il termine che catalizza l’attenzione; “fascista”, inteso come rievocazione di un periodo storico italiano (ed europeo) dove un partito politico, prendendo il potere, si sostituì allo stato legalmente, illegalmente e forzando la legislazione a proprio favore. È quel che si definisce “totalitarismo”: l’assenza di contraddittorio, l’omologazione alla medesima ideologia, la repressione della protesta, perlopiù violentemente.
Violenza. Così nacque il fascismo – leggasi, squadrismo agrario – così morì, permettendo la promulgazione delle leggi razziali e conformandosi all’ideologia, alla guerra, mossa dalla Germania nazista al continente europeo. Violenza che trovò il suo tragico apice nell’Olocausto contro il popolo ebraico, iniziato come malcelato aiuto al sionismo (e qui, Hannah Arendt e il suo Eichmann in Jerusalem: a report on the banality of Evil aiuta a comprendere la dinamica), per tramutarsi in orrenda caccia, deportazione, mutilazione e spoliazione di ogni umanità, a prescindere dal credo religioso. L’ebraismo, suo malgrado, ne è diventato un simbolo; un simbolo spaccato tra il mostruoso passato e un presente in cui il soggetto simbolico stesso sembra non riconoscersi più.
E ritorniamo, allora, alle parole di Pasolini, spostando lo sguardo alla fine della frase, al “centralismo della società dei consumi”, all’analogia tra il totalitarismo di una volta, e la presunta totalità che stiamo vivendo noi, occidentali, in questo cosiddetto “capitalismo liberale”. Il mercato governa il nostro quotidiano, fatto di orari schedulati, di stipendi più o meno pagati, di tempo libero speso tra i bar del centro, o nei viaggi poco costosi dal venerdì sera alla domenica pomeriggio. La libertà è una corsa ai regali di Natale, e un’attesa delle ferie estive. L’obiettivo è il lavoro che meritiamo, il salario che ci spetta, e la spesa che ci compiace. Guai a sfiorare quel che è diverso da noi, o che non è previsto: l’ansia ci sommerge, e il panico assale. Corriamo in difesa delle nostre strade – o meglio, protestiamo perché qualcuno lo faccia – e delle nostre botteghe, senza considerare che il male potrebbe giungere, inavvertito, da ciò che diamo per scontato: il nostro mondo sicuro, i nostri simili, la nostra omologazione.
Non che omologarsi, o anche solo riconoscersi nei propri simili, sia un male, anzi; se c’è qualcosa che insegna Hannah Arendt nel suo reportage, è proprio questo: la non-natura del male, la sua mancanza di definizione, il suo sgorgare dall’indifferenza, dalla routine, dalla mancanza di uno spessore temporale tra passato, presente e futuro. In questo punto si aggancia l’accusa pasoliniana e la constatazione della filosofa tedesca (naturalizzata statunitense): la banalità del male, data dal centralismo, e dalla conseguente indifferenza, dalla mera esecuzione, dall’apatia, da meri desideri indotti e senza ragione; dalla società dei consumi.
A ottanta anni da quel 27 gennaio 1945, giorno di apertura dei cancelli di Auschwitz per mano russa; a cinquant’anni dalla pubblicazione degli Scritti corsari; a venticinque dall’istituzione del Giorno della Memoria per commemorare le vittime dell’Olocausto: siamo di nuovo qui. Aleggiamo all’interno di uno spirito nazional-occidentale, dove tutte le parti in gioco – conservatori e oppositori, tradizionalisti e riformisti – non riescono a pensare a un paradigma sociale differente, dove il diverso non sia solo accolto, ma integrato; dove i valori da propugnare non passino solo dall’economia, ma ritornino alla loro gratuità, genuina e onesta. Dove il benessere sia inteso primariamente come stato psico-fisico, e non un parametro statistico.
Appare, tutto, come un grande déjà-vu storico, a cui possiamo far fronte solo grazie alla Memoria, il che significa: ricordare da dove siamo venuti, ispessire le nostre giornate con la diversità, ascoltare in silenzio cosa ci passa dentro – sentimenti, emozioni – e cosa ci passa dalle voci degli altri. E accettare sempre, anche di fronte al più sgangherato o folle dialogo, che quel pensiero ha una radice da comprendere, prima di essere sradicata; poiché se non ci sforziamo di capire anche il più anonimo degli interlocutori, potremmo incorrere in una tragedia immane. La differenza sta tutta qui, tra la fatica del Bene, l’inedia del Male.
Per ricordare, bisogna essere consapevoli, e sudare, e lavorare. La Memoria non è un giorno all’anno, ma tutti i secondi possibili; altrimenti dovremo dire di non aver vissuto.
di Damiano Martin