Categorie: Editorial
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Nell’era degli influencer, le identità personali si fondono con le logiche dei brand. Le persone diventano marchi, le vite si trasformano in stili di vita, e l’esistenza umana si appiattisce in un’immagine da vendere. Questo fenomeno raggiunge il suo apice in quella che si può considerare l’evento di singolarità del marketingun punto in cui la distinzione tra coscienza individuale e strategia aziendale si fondono. Un esempio perfetto di ciò è Lil Miquela, l’AI influencer che ha ridefinito il concetto di autenticità nell’era dei social media. Lil Miquela è la perfetta incarnazione del capitalismo comunicativo che ribalta l’alienazione del capitale di Marx: non è più una vita umana trasformata in capitale, ma il capitale stesso trasfigurato in vita.

Nel mondo degli influencer, stiamo assistendo a un rovesciamento di ruoli. Se fino a pochi anni fa erano gli esseri umani a inseguire le metriche imposte dagli algoritmi, ora sono le creazioni digitali — algoritmi stessi sotto mentite spoglie — a modellarsi sulle aspettative di un pubblico reale. Influencer virtuali come Lil Miquela non solo imitano la realtà, ma creano narrazioni così complesse da confondere i confini tra autentico e artificiale.

Make It Real' - the new BMW iX2 lets influencer Lil' Miquela flex her digital senses and experience the joy of driving - News - GoSee
Lil Miquela (Avatar Influencer) x BMW per promuovere la nuova iX2

L’aspetto più affascinante di questo fenomeno è che spesso la sua natura simulata è apertamente dichiarata, celata dietro un velo di ironia o critica sociale. Come possono degli avatar che non provano emozioni “piangere” o ispirare empatia? Questa domanda è il cuore di un dibattito sull’evoluzione dell’autenticità, simulazione, dissimulazione e controllo dell’immagine nell’era digitale.

Nel 1996, Kyoko Date fece il suo debutto come la prima pop star digitale. Creata dalla Talent Agency giapponese OriPro, Kyoko rappresentava un’avanguardia tecnologica: un avatar generato in computer grafica, dotato di una biografia e di sogni apparentemente reali. Tuttavia, i limiti tecnologici e la strategia di comunicazione adottata all’epoca impedirono al progetto di ottenere un successo più duraturo.

Step 2: Hatsune Miku – pixel con cui empatizzare

 

Da Kyoko a Hatsune Miku, la storia dell’ibridazione tra marketing e tecnologia si è evoluta rapidamente. Lanciata nel 2007 dalla Crypton Future Media, rappresenta una tappa fondamentale nella storia degli Influencer digitali. Nata come interfaccia per un sintetizzatore vocale, Vocaloid 2, Miku è presto diventata molto più di uno strumento musicale. Il suo design — giovane ragazza dai capelli turchesi, occhi grandi e abiti futuristici — ha catturato l’immaginario collettivo, trasformandola in un’icona. Ma il vero elemento rivoluzionario di Miku è stata la sua natura “open-source”: un personaggio costruito non solo dall’azienda, ma anche e soprattutto dai fan.

Miku è, in un certo senso, un’entità senza un passato né una personalità fissa, pronta ad accogliere le storie e le emozioni che il pubblico desidera attribuirle. I fan hanno preso la sua voce sintetizzata e il suo aspetto e li hanno integrati in video, canzoni, animazioni e opere d’arte, costruendo una mitologia (spesso anche molto personale come il caso di Akihiko Kondo che ha sposato Miku) che supera qualsiasi strategia aziendale.

Il guscio vuoto di Miku è stato riempito dai singoli desideri, aspirazioni e fantasie dei suoi fan.

Digitale e reale si fondono

 

Uno dei momenti chiave della trasformazione di Miku da vocaloid a star globale è stato il suo passaggio ai concerti dal vivo. Grazie alla tecnologia degli ologrammi, Miku si esibisce davanti a migliaia di persone in tutto il mondo, accompagnata da una band di musicisti reali. Questi eventi hanno consolidato il suo status di pop star, rendendola uno dei primi esempi di come un’entità completamente digitale possa instaurare un legame emotivo reale con il pubblico.

Durante i concerti, i fan reagiscono a Miku come farebbero con un artista umano: urlano, cantano insieme a lei e agitano le luci al ritmo della musica. Eppure, tutti sanno che Miku non è reale. Questo paradosso – un’entità sintetica che trasmette emozioni reali– anticipa il fenomeno degli AI influencer di oggi, che capitalizzano su una simile ambiguità per creare connessioni profonde e redditizie con il loro pubblico.

Se Miku è stato un progetto open-source alimentato dalla sua fandom, gli attuali avatar digitali come Lil Miquela e Emily Pellegrini funzionano attraverso un controllo narrativo gestito unicamente dalle aziende, ma ereditano la stessa capacità di costruire mondi emotivi complessi. Gli AI influencer non sono semplicemente strumenti per vendere prodotti; sono contenitori di storie che il pubblico vuole credere e vivere.

Miku, con la sua capacità di commuovere e intrattenere senza mai nascondere la propria natura artificiale, rimane un esempio pionieristico di come l’umano e il digitale possano fondersi.

È forse la dimostrazione che il successo degli influencer non risiede necessariamente nella realtà, ma nella capacità di creare emozioni, anche se a farlo è un prodotto digitale.

Step 3: Lil Miquela – dall’umano che imita l’algoritmo all’algoritmo che imita l’umano

 

Creata nel 2016, Lil Miquela, o Miquela Sousa, è presentata come una modella, musicista e influencer brasiliana-americana di 21 anni, con 2,5 milioni di follower su Instagram e oltre 130k ascoltatori mensili su Spotify. Il suo feed è un mosaico di auto-promozione, riferimenti pop, sostegno a cause sociali come il movimento LGBTQ+, campagne per i diritti civili e contenuti sponsorizzati da brand globali come Prada, Calvin Klein, Samsung e Spotify. A prima vista, Miquela sembra incarnare l’algida perfezione di qualsiasi giovane influencer di successo, ma c’è un dettaglio che la distingue: non è reale. È un avatar CGI, un puro prodotto digitale costruito dalla startup Brud che nel 2018 ha raccolto $6 mln in un serie A round e che ha visto come investitore principale Sequoia Capital.

Bella Hadid Lil Miquela Calvin Klein Campaign | Hypebae
Bella Hadid (a sinistra) e Lil Miquela (a destra) per Calvin Klein

Lil Miquela rappresenta il perfetto antropomorfismo aziendale, in cui la simulazione non solo si fa reale, ma lo dichiara apertamente, sfruttando la sua stessa artificialità come elemento chiave del suo personal brand. Essa incarna un paradosso narrativo che si presta a infinite interpretazioni e manipolazioni. Il suo successo non risiede solo nella sua estetica impeccabile, ma nella capacità di intrecciare la realtà e la finzione in un continuum indistinguibile.

La frase “not too close, not too far, just right”, tratta dalle analisi di Sherry Turkle (T. Mazali, 2013), evidenzia l’equilibrio necessario affinché le tecnologie relazionali siano percepite come accettabili. Questo principio si applica a strumenti come robot e AI influencer, che devono essere abbastanza simili agli esseri umani per risultare familiari e empatici, ma non così realistici da suscitare disagio o inquietudine. L’obiettivo è creare interazioni che sembrino autentiche senza intaccare il confine tra realtà e simulazione.

Nel caso degli AI influencer, questo equilibrio si traduce nella capacità di simulare un’autenticità umana pur mantenendo una dichiarata consapevolezza della loro natura artificiale. Lil Miquela rappresenta un esempio perfetto: riesce a coinvolgere il pubblico condividendo momenti che sembrano autentici — come selfie e messaggi motivazionali — ma con una post-ironia che sottolinea la sua essenza fittizia. Questo approccio evita il fenomeno dell’Uncanny Valley, creando un effetto “abbastanza umano” per attrarre il pubblico senza alienarlo.

 

I’m a robot, it just doesn’t sound right

Lil Miquela è anche una narrazione profondamente stratificata, costruita per confondere i confini tra realtà e finzione. Il culmine si è verificato nel 2018 con l’hackeraggio orchestrato da Bermuda, un’altra AI influencer, che accede al profilo di Lil Miquela cancellando tutte le sue foto. Bermuda, creata anch’essa dalla startup Brud (la stessa di Lil Miquela), si presenta come l’antitesi di Miquela: pro-Trump, palesemente artificiale e provocatoria. Questa rivalità, apparentemente autentica, nasconde un gioco narrativo più complesso: uno scontro progettato per simulare una culture war, aumentare il coinvolgimento degli utenti e convogliare l’interesse verso entrambe le figure​.

Come raccontato da Chris Sims (The Verge, 2018), l’intero evento funziona come un esempio di kayfabe, un termine mutuato dal wrestling professionistico che indica una narrazione fittizia presentata come reale. Come nel wrestling, il pubblico sa che ciò che sta guardando è una finzione, ma sceglie di partecipare emotivamente al gioco, sospendendo l’incredulità. Questo meccanismo consente di intrecciare la realtà percepita e la finzione, creando un’esperienza immersiva in cui le linee tra il vero e l’artificio diventano intenzionalmente sfocate​.

L’analogia con il wrestling è particolarmente azzeccata. Ogni “buono” (face) ha bisogno di un “cattivo” (heel) per definire il proprio ruolo nella narrazione. Nel caso di Lil Miquela e Bermuda, Miquela interpreta la parte del personaggio progressista e impegnato, mentre Bermuda è il suo opposto ideologico, costruendo un conflitto che si traduce in una narrativa avvincente. Proprio come nei match di wrestling, dove le rivalità sono pianificate per sembrare autentiche, la rivalità tra Miquela e Bermuda è un “worked shoot”: una finzione che imita la realtà, utilizzata per rafforzare il coinvolgimento del pubblico e alimentare la popolarità di entrambe​.

Questo conflitto tra le due figure riflette inoltre la polarizzazione politica dei social media, replicando una culture war digitale in cui i follower si schierano e partecipano commentando, attivamente alla narrazione​​.

Colpi di teatro e caos! Più l’argomento è divisivo, più le persone prenderanno una posizione che difenderanno a colpi di commenti e creando contenuti a sostegno del loro punto di vista e, infine, l’agognato engagement aumenta, rendendo entrambe le parti più ricche popolari.

Il racconto raggiunge il culmine quando Miquela “riprende il controllo” del proprio account e confessa (o meglio, scopre) di essere un robot. La rivelazione è presentata come un atto di liberazione dai suoi creatori umani, che vengono identificati come Trevor McFedries e Sara DeCou, i fondatori di Brud. Un aspetto centrale del personaggio di Miquela è proprio questa sua illusoria autonomia. Dichiarando di essere stata “ingannata” dai suoi creatori, si dissocia dalla startup Brud e riafferma il proprio legame diretto con il pubblico.

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Questa crisi d’identità che porta lil Miquela a una nuova consapevolezza, affronta tematiche che molte persone si sono poste e che hanno a che fare con la ricerca della propria individualità e definizione delle sfumature che la compongono. Lei piange, sogna, si innamora, ha una famiglia che l’ha cresciuta e che scopre che le ha mentito. Vi suona forse familiare?

“I’m a robot, it just doesn’t sound right,

I feel so human,

I cry and I laugh and I dream,

I fall in love.”

Da questa storia Lil Miquela si mostra vulnerabile, tradita, confusa e per questo più umana.

La presa di distanza dall’azienda che l’ha creata consente a Miquela di recuperare la fiducia dei fan. È un processo di costruzione dell’autenticità paradossale: un personaggio dichiaratamente fittizio che utilizza il linguaggio della trasparenza e della vulnerabilità per dimostrarsi reale​.

L’hackeraggio di Miquela da parte di Bermuda e la rivelazione della sua natura robotica fanno parte di una narrazione che il pubblico accetta consapevolmente come fiction, senza che ciò diminuisca il coinvolgimento emotivo o l’impatto commerciale dell’evento​.

Questa capacità di oscillare tra autenticità e finzione è il fulcro del successo di Miquela e di altre figure simili. Lil Miquela incarna l’inversione dei rapporti tra umano e digitale. Se un tempo gli influencer umani adattavano la propria immagine agli algoritmi, Miquela dimostra come ora siano gli algoritmi stessi a modellarsi sulle aspettative del pubblico. In questo gioco di specchi, Miquela non solo rappresenta un avatar virtuale, ma diventa una metafora delle dinamiche digitali-culturali e economiche contemporanee.

Perfette imitazioni delle distorsioni

La malleabilità degli influencer virtuali li rende strumenti ideali per le aziende. Questi avatar non invecchiano, non sbagliano e possono essere programmati per incarnare qualsiasi immagine desiderata: testimonial perfetti, privi di scandali e di costi imprevisti. Tuttavia, questa apparente perfezione evidenzia un paradosso. Gli AI influencer non esistono nel vuoto e il loro successo dipende dalla loro capacità di rispecchiare i desideri del pubblico. Se gli influencer reali sono già stati assimilati a prodotti confezionati per il mercato, allora gli AI influencer non sono altro che una versione estremizzata di questo modello, con l’aggravante di non risolvere le distorsioni che caratterizzano il sistema, ma anzi, di amplificarle.

Un esempio è l’iper-sessualizzazione. AI influencer come Emily Pellegrini e Aitana López, rispettivamente con 259.000 e 343.000 follower su Instagram, incarnano canoni estetici esasperati. Spesso ritratte in pose provocanti o con abiti succinti, queste figure digitali riflettono e consolidano stereotipi di genere che riducono la figura femminile a un oggetto estetico. Questo tipo di rappresentazione, lungi dall’essere innovativo, perpetua gli stessi standard irraggiungibili e alienanti che caratterizzano da anni il panorama degli influencer reali. Non solo rinforzano insicurezze e aspettative tossiche, ma contribuiscono a normalizzare la riduzione della donna a un elemento decorativo progettato per il consumo visivo.

Emily Pellegrini (263k Follower su IG)

Le distorsioni non si limitano alla rappresentazione estetica. Gli AI influencer sono spesso bersaglio di comportamenti tossici, come il cyberbullismo e la misoginia. Il caso di Lil Miquela, attaccata regolarmente con commenti sessisti e violenti sui social, ne è una dimostrazione lampante. Nonostante sia un avatar digitale, la sua immagine riflette quella di una giovane donna, e questo basta a renderla oggetto di attacchi misogini. Come accade con le donne reali, il trattamento riservato a Miquela dimostra quanto i social media siano permeati da una cultura di violenza normalizzata, che colpisce chiunque sia percepito come una rappresentazione femminile.

Questi stessi comportamenti tossici vengono persino incorporati nelle strategie di comunicazione che coinvolgono gli AI influencer. La già citata rivalità orchestrata tra Lil Miquela e Bermuda, ad esempio, è stata progettata per simulare una “culture war” in cui entrambe le figure erano strumenti di un gioco narrativo finalizzato ad aumentare il coinvolgimento. Questo utilizzo strumentale di dinamiche tossiche non fa che sottolineare come il sistema non elimini le problematiche preesistenti, ma le riutilizzi per scopi commerciali.

Alla fine, il successo degli AI influencer si basa sulla loro capacità di replicare quella stessa intimità che i loro omologhi umani utilizzano per fidelizzare il pubblico. Tuttavia, lontano dall’essere una soluzione ai problemi del sistema, gli avatar digitali esasperano le contraddizioni intrinseche:

Se gli influencer reali si adattano alle richieste degli algoritmi, gli AI influencer si modellano sui desideri del pubblico. Questi prodotti digitali non fanno altro che amplificare le tossicità e le problematiche già esistenti, rinforzando i lati peggiori di una cultura social già profondamente compromessa.

Chi piange davvero?

La storia degli AI influencer rappresenta un ulteriore punto di svolta nella relazione tra umano e digitale. Se un tempo erano gli esseri umani a modellarsi sui dettami degli algoritmi, oggi osserviamo avatar che cercano di imitare sentimenti e bisogni di un pubblico umano. Ma quando un’intelligenza artificiale “piange”, di chi sono quelle lacrime?

Forse, il vero fascino degli AI influencer non sta nella loro autenticità, ma nella loro capacità di riflettere ciò che noi siamo disposti a credere.

Chi prova davvero emozioni in questo gioco di specchi? Gli avatar, progettati per commuoversi, o noi, spettatori consapevoli e complici di questa nuova forma di intrattenimento? Nel mondo degli algoritmi che piangono, la risposta potrebbe risiedere nella nostra stessa volontà di sospendere l’incredulità e accogliere, per un istante, l’illusione come verità emotiva.

Quindi, nell’era della simulazione, chi piange davvero? Forse siamo noi.

di Luca Cirio

 

 

 

Se vuoi ascoltare quest’artiucolo: https://futuroanteriore.substack.com/p/le-aziende-non-piangono-ma-i-loro-8db

 

Fonte: https://futuroanteriore.substack.com/p/le-aziende-non-piangono-ma-i-loro